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La reunion dei Blur, la recensione di PcSera

A sentire questo disco, c’è da mangiarsi tutto quello che abbiamo detto e pensato a proposito delle reunion:che di solito le fanno per soldi

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BLUR The magic whip (2015)
 
A sentire questo disco, c’è da mangiarsi tutto quello che abbiamo detto e pensato a proposito delle reunion:che di solito le fanno per soldi (certi musicisti spendono molto, infatti: è di questi giorni la notizia di Jagger sul lastrico) o per noia, o per avere ancora la prima pagina dei settimanali; a volte solo per non sentirselo più domandare, ma quand’è che fate la reunion? 

Bello bello, infatti, questo del ritorno dei Blur dopo tanti anni.
Le cronache ci hanno raccontato per anni che l’armonia tra Albarn e Coxton era finita, che tra loro era crisi profonda.
Mah.

Qui lavorano benissimo insieme, quasi come Lennon e McCartney in Abbey Road, ormai separati in casa (in realtà ci lavorano poco: solo cinque giorni di registrazioni. Il disco infatti presenta alcune imperfezioni che però non ne intaccano la qualità).
Ecco, i Beatles.

In “The maagic whip” non c’è più traccia del britpop. O quasi.
Pensate: non ci sono in pratica i ritornelli. Quelli i Blur li lasciano ai fratelli Gallagher e alle varie band più o meno temporanee che sono nate o nascono dalla diaspora Oasis, sempre alla ricerca delle melodie semplici ma irresistibili di McCartney.
Al limite qui c’è più Lennon.

Lo schema strofa-ritornello-strofa è sostituito da brani indolenti, a volte trascinati, anche un po’ sporchi, in stile lo-fi (già l’ultima fase Blur pre-scioglimento era stata caratterizzata da una svolta filo-americana, verso gruppi come Pavement).
Gli archi di “Lonesome tree” sono da musical hollywoodiano, poi c’è il funky apocalittico e distopico di “New world towers” – pare suggerito dalla vista di una di queste nuove megalopoli del mondo arabo – e il pop intelligente/bislacco del singolo “Go out” (alla pari di “There are too many of us”, uno dei migliori in assoluto del lotto). “Ice cream man” e “Ghost ship” sono quadretti minimalisti alla maniera dell’Albarn solista, “Thought I was spaceman” e “Mirrorball” sono tribalismi elettronici, mentre in “I broadcast” sembrano i Fall al rallentatore, oppure i Violent Femmes.
Ma c’è spazio anche per  l’atmosfera orientaleggiante di “Pyongyang” e il britpop – ah, eccolo, il britpop – di “Ong ong”.
 
Giovanni Battista Menzani
@GiovanniMenzani

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