Sacerdote e martire della libertà, in un libro la storia di Don Borea foto

Presentazione, presso la parrocchia di San Pietro in Via Carducci, del fascicolo “Giuseppe Borea. Martire della Resistenza”, ad opera di Lucia Romiti e dedicata al sacerdote ucciso dai nazifascisti il 9 febbraio 1945

“Martire della Resistenza”, in San Pietro a Piacenza presentato il libro in ricordo di Don Borea

Nell’anno del 72esimo anniversario della Liberazione d’Italia dal governo fascista della Repubblica Sociale Italiana e dall’occupazione nazista l’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani ha deciso di dare spazio a una figura centrale della resistenza piacentina: Don Giuseppe Borea.

L’occasione è stata la presentazione, presso la parrocchia di San Pietro in Via Carducci, del fascicolo “Giuseppe Borea. Martire della Resistenza”, ad opera di Lucia Romiti e dedicata al sacerdote ucciso dai nazifascisti il 9 febbraio 1945.

La pubblicazione, 64 pagine a colori in formato tascabile, è stata edita dal settimanale Il Nuovo Giornale nella collana “Il Centuplo quaggiù e l’eternità”, dedicata alla riscoperta di figure che nella vita quotidiana hanno sperimentato la forza della fede.

“La motivazione di questa pubblicazione” – ha detto Mario Spezia, presidente dell’Anpc Piacenza, – è quella di portare avanti attraverso figure emblematiche della resistenza i valori della partecipazione e della democrazia, che ancora oggi sono i valori fondanti della nostra comunità”. “Oggi lo facciamo ricordando la vita di questo sacerdote” – ha aggiunto – “che ha dato la vita per non voler chinare il capo ai compromessi ed alle prepotenze, donando la propria esistenza alla crescita della comunità e la sua fucilazione conferma, ancora una volta, che la Resistenza è stata insurrezione di un popolo tutto contro la tirannia e l’ingiustizia”.

Chi era Don Borea, lo ha raccontato l’autrice Lucia Romiti attraverso la lettura di alcuni frammenti significativi del proprio fascicolo.

“Don Borea è un uomo e un prete coraggioso, spinto da un forte senso di pietà nei confronti dei sofferenti. È anche un uomo molto sensibile, che non si abitua e non si rassegna al male del tempo storico in cui si è trovato a vivere”.

“Nell’affrontare la propria condanna a morte ricorda Socrate” – ha commentato l’autrice – “Vittima di processo sommario, ingiusto e infamante, in cui l’instancabile sacerdote dovrà rispondere anche di immoralità e di sevizie nei confronti di alcuni prigionieri fascisti, lui accetta sempre con serenità ciò che lo aspetta”.

“Come Socrate” – ha aggiunto – “per Don Borea non conta vivere, ma vivere secondo giustizia; e quindi nonostante abbia la possibilità di scappare sottraendosi all’esecuzione lui decide di andare incontro al suo destino”.
Poi i racconti degli anni della giovinezza, la decisione di diventare cappellano militare, il ruolo di assistente ai condannati a morte

Don Giuseppe Borea nasce a Piacenza il 4 luglio 1910. Il padre, Paolo, è impiegato pubblico; la madre, Isoletta Scala, è maestra di scuola elementare. Giuseppe è il primo di cinque figli. Carlo e Camillo, i fratelli maschi, entrambi dopo l’8 settembre combatteranno come partigiani.

Parroco ad Obolo dal 1937, don Borea si trova immerso nella tragedia della guerra e nelle speranze della Resistenza al regime nazi-fascista. È lui uno dei cinque sacerdoti che insieme a un seminarista hanno perso la vita in questo tempo, perché sono rimasti al loro posto, perché hanno condiviso i valori del servizio, della libertà e della patria.

Don Giuseppe è un uomo di azione, abituato ad essere sempre in movimento senza risparmiare energie. Diventato cappellano della Divisione partigiana Valdarda guidata dal comandante Giuseppe Prati, dà il suo sostegno morale e spirituale ai giovani ribelli. Assiste i condannati a morte di entrambe le parti in lotta, raccogliendo spesso le ultime volontà e amministrando gli ultimi sacramenti.

Durante il rastrellamento del luglio ‘44, in cui le truppe dei mongoli battono la montagna per scovare i partigiani e si lasciano andare a violenze sui civili, il giovane sacerdote piacentino va personalmente a raccogliere i cadaveri dei ragazzi uccisi, sfidando gli ordini dei militari, e percorre chilometri per dare la notizia della morte ai genitori.

Nel preventorio di Bramaiano di Bettola, che nel ‘44 diventa ospedale partigiano, porta conforto ai feriti e dà l’estrema unzione ai moribondi. Visita tutti e distribuisce immagini sacre chiedendo se qualcuno vuole confessarsi per ricevere la comunione.

Si interessa perché la vita di prigionia sia meno dura e cerca di sventare le condanne a morte. Sul petto, è ben visibile la croce rossa di cappellano. Don Borea è un uomo e un prete coraggioso, spinto da un forte senso di pietà nei confronti dei sofferenti. È anche un uomo molto sensibile, che non si abitua e non si rassegna al male del tempo storico in cui si è trovato a vivere”.

Infine il processo e le ultime parole prima di morire. “Parole di perdono e di speranza” – ha sottolineato l’autrice.

“Don Giuseppe, che era già stato arrestato nel 1942, viene prelevato nella sua canonica da tre uomini della Guardia della Repubblica di Salò il 28 gennaio. Ne segue un processo sommario, ingiusto e infamante, in cui l’instancabile sacerdote dovrà rispondere anche di immoralità e di sevizie nei confronti di alcuni prigionieri fascisti. Lui accetta con serenità ciò che lo aspetta. Poche ore prima di essere portato fuori dalla sua cella numero 14 ed essere condotto presso il recinto del cimitero urbano per la fucilazione, gli viene concessa la visita della mamma, Isoletta, a cui chiede di perdonare tutti quelli che hanno tramato contro di lui.

“Sono il sesto prete della diocesi che compie il sacrificio della vita per la patria martoriata. Il Signore – le dice – ci ha concesso la grazia di rivederci e così muoio più contento. Ti raccomando la mia Chiesa e consegna a chi di dovere la chiave del Tabernacolo che ho portato con me perché non profanassero il Santissimo. Dà il mio estremo saluto ai parrocchiani che ho tanto amato. Stasera sarò in paradiso e pregherò per tutti. Povera mamma! Addio ancora per l’ultima volta!”.

Viene fucilato il 9 febbraio 1945, morendo da martire. “Lascio il cuore alla mia carissima parrocchia… volentieri perdono a tutti e passerò il paradiso a compiere quel bene che non ho potuto fare sulla terra… il mio ultimo pensiero è per la mia parrocchia di Obolo, dove desidero essere sepolto. Viva Gesù! Viva Maria!”. Queste le sue ultime parole. Poi, la raffica di colpi partiti dalle armi spianate dei soldati della Guardia nazionale repubblicana fanno cadere a terra la sua figura di santo sacerdote”.

A margine della presentazione don Ezio Molinari ha poi celebrato una messa a suffragio di don Giuseppe Borea, dell’avv. Francesco Daveri, di don Giuseppe Beotti, del prof. Giuseppe Berti, di Nato Ziliani e di tutti coloro che si sono battuti per la libertà e la democrazia.

Federico Tanzi

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