Nel campo di Torre della Razza tra i Sinti piacentini. La mostra di Sergio Ferri foto

Mentre tiene banco la polemica sul “censimento dei rom“, proposta riesumata dal passato dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini, ripubblichiamo il racconto di una mostra fotografica di qualche mese fa.

Si tratta della mostra “Quotidiano che non è ovvio”, curata dal fotografo Sergio Ferri. L’evento, promosso dalla Caritas Diocesana all’Università Cattolica di Piacenza nel mese di febbraio, ha voluto aprire una “finestra” di immagini sulla vita di tutti giorni del campo nomadi di Torre della Razza, ai margini della nostra città.

Riproponiamo l’articolo di Micaela Ghisoni – della redazione di “Universi” – con le sue impressioni e l’intervista al fotografo autore degli scatti, Sergio Ferri. Ecco il suo articolo con le foto della mostra, uscito qualche settimana fa.

Un “mondo capovolto” tra aspirazione alla semplice normalità di tutti i giorni e costrizione all’isolamento, all’esclusione. Un mondo nel quale la società nasconde sempre più i propri timori. Paura dell’altro, del diverso, di chi non è allineato agli schemi canonici.

Questa è la realtà emersa dalla mostra fotografica di Sergio Ferri sul popolo Sinti a Piacenza, esposta all’Università Cattolica in collaborazione con Caritas e da poco terminata (la mostra verrà comunque riproposta in un’altra location ndr).

Nel “Quotidiano che non è ovvio”, titolo della mostra, Sergio Ferri ha mostrato la vita di centoventi Sinti: residenti nel campo nomadi situato a 3 km dalla città di Piacenza e divisi in 25 famiglie. Fotografie in bianco e nero ritraggono soprattutto bambini,  che più soffrono l’isolamento. Non mancano però anziani, colti nelle  loro precarie condizioni di vita,  e momenti di preghiera comunitari.

pochi chilometri dalla città, i Sinti  non la vivono. Relegati nel campo, recintato da cancelli concepiti per essere chiusi solo dall’esterno, essi sono e si sentono separati dal resto della popolazione urbana, che  li addita come diversi e, spesso,  pericolosi.

Tuttavia, nella propria quotidianità fatta di roulotte, case mobili, spazi condivisi, problemi grandi e piccoli, questa comunità cerca una via d’integrazione con l’esterno, aspirando ad auna vita migliore per sé e per le proprie famiglie.

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Nella mostra Sergio Ferri ha lasciato che fossero le immagini a raccontare la realtà del campo: fotografie pulite e dirette, accompagnate da didascalie che accentuano la forza del messaggio.

Qui di seguito l’intervista al fotografo, senz’altro la  chiave migliore per comprendere ed apprezzare il suo lavoro.

L’interesse e l’avvicinamento al campo Sinti di Piacenza si sono sviluppati in modo graduale? Hai incontrato difficoltà ad approcciarti a questa realtà?

Ho una formazione sociologica e ho lavorato alcuni anni nel sociale. Il mio interesse per certe tematiche è quindi piuttosto normale. Da quando faccio il fotografo ho mantenuto vivi certi interessi.

L’interesse specifico per il campo nomadi è nato dall’incontro con Caritas. Il tema nomadi mi ha subito incuriosito per due motivi: il primo è che non ne sapevo quasi nulla, quindi era una buona occasione per conoscere meglio questa realtà; il secondo è che da quel che mediamente si legge sui giornali i nomadi, gli “zingari” sono tra i soggetti peggiori che si possono incontrare: dediti al furto, vivono sulle spalle della comunità, sono in alcuni casi violenti ecc.

Quando avverto che su qualcuno, un singolo o un gruppo, si addensano luoghi comuni negativi e lo si assume come capro espiatorio, ecco che mi vien voglia di capirne di più. Così ho accettato di lavorare sul campo nomadi di Piacenza, mosso essenzialmente da una forte curiosità.

Quello che ho capito già il primo giorno che sono entrato al campo è che mi trovavo in un contesto molto più normale di come viene solitamente dipinto e immaginato: ci abitano diverse famiglie con figli, c’è gente che lavora, c’è un luogo di culto evangelico, un centro educativo, le roulotte e gli spazi comuni sono decorosi; non è una centrale del malaffare né un covo di delinquenti.

Per cui non ho avuto difficoltà ad approcciarmi a questa realtà a livello di conoscenza superficiale. Ho passato diversi pomeriggi a chiacchierare con i ragazzi e le donne del campo, tutti sempre gentili e aperti.

Ho incontrato invece maggiori difficoltà nel lavorare dal punto di vista fotografico, perché nessuno degli abitanti del campo vuole apparire come tale in fotografia. Ci ho impiegato molto tempo quindi a costruire rapporti di fiducia. Una volta ottenuta quella ho potuto lavorare meglio, ma sempre facendo attenzione a non realizzare foto di ritratto a chi non  fosse del tutto d’accordo, a non riprendere  bambini in modo troppo diretto e soprattutto a non far foto che rafforzassero, anche solo indirettamente, i classici luoghi comuni sui nomadi e sul campo nomadi.

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La scelta del titolo della mostra: “Il quotidiano che non è ovvio” com’è scaturita?

Il titolo della mostra è nato quasi a fine lavoro, quando, ragionando, ho visto emergere dalle foto alcuni tratti comuni e una strana tensione: da una lato avevamo tra le mani delle foto che testimoniavano una certa “normalità” nella vita quotidiana del campo: lavoretti saltuari, raccolta del ferro, disbrigo delle faccende domestiche, scuola per i più piccoli, preoccupazioni, religiosità ecc.;

dall’altro queste stesse foto mostravano una realtà assai poco “normale”: l’esistenza del campo stesso, l’essere relegati forzatamente ai margini della città, lo stigma sociale che il risiedere nel campo comporta, l’assenza di scambio e di contaminazione socio-culturale con l’esterno.

Tutto quello insomma che non dovrebbe essere dato per scontato e che invece, nel caso dei Sinti residenti nel campo nomadi, lo è.

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Sono emersi alcuni particolari inaspettati e significativi dall’incontro con gli abitanti del campo?

Le chiacchierate che ho avuto occasione di fare all’interno del campo mi hanno fornito molti spunti e mi hanno offerto la possibilità di vedere e fotografare la realtà del campo con occhi diversi.

Quello che mi ha colpito di più però direi che sono le piccole aspirazioni che le famiglie Sinti hanno, che ruotano tutte sulla possibilità di affrancarsi dalla realtà del campo. Nessuno dei Sinti del campo nomadi di Piacenza con cui ho parlato vuole continuare a risiedere in quella realtà.

Nessuno vorrebbe vedere i propri figli crescere in quella realtà. Il mito dei nomadi che amano spostarsi e vivere nelle roulotte (e quindi nel campo nomadi) è una mistificazione che fa comodo a qualcuno. La realtà non è questa.

Come spieghi la scelta del bianco e nero piuttosto che del colore in questa mostra fotografica

Ho scelto il bianco e nero dopo un paio di ripensamenti. Volevo fare foto non drammatiche, ma con quel sottile velo drammatico che solo il bianco e nero può dare. Il bianco e nero porta direttamente al cuore della foto. E’ un linguaggio più essenziale.

Micaela Ghisoni

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