Le Rubriche di PiacenzaSera - Le Recensioni CJ

I dischi più belli del 2018: la playlist di PiacenzaSera

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I dischi più belli dell’anno (la playlist 2018 di PiacenzaSera)

20
UJI – Jenga
Difficile trovare notizie su questo misterioso produttore e polistrumentista nomade nato a Buenos Aires, il cui vero nome è Luis Maurette. “La produzione elettronica e l’alchimia non sono mai state così vicine”, si legge sul suo bandcamp. Tutto vero, così come vero è il fantastico incantesimo creato dall’incontro tra tecnologia moderna e antichi riti, drum machine e Africa indigena, possibilità inedite ed echi di culture immortali.

19
IDLES – Joy is an act of resistance
SHAME – Song of praise
Il punk è vivo e lotta insieme a noi. Almeno in Gran Bretagna. Gli Idles, da Bristol, ci regalano un disco da battaglia: brutale, sarcastico e potente. Il miglior antidoto all’attuale avanzata di nazionalismi e destre sovrane. Da South London, gli Shame – poco più che ventenni – debuttano con un sound meno immediato e più dark, tra Fall e Joy Division.

Testi diretti e impetinenti, as usual: “Le mie unghie non sono curate/La mia voce non è la migliore che tu abbia mai sentito/e puoi scegliere di odiare le mie parole/Ma non me ne frega un cazzo” (da “One Rizla”). (NME, tuttavia, premia i The 1975, più ruffiani e A.O.R.).

18
CONNAN MOCKASIN – Jassbusters
BRIAN CAMPEAU – Old dogs, new tricks
Musica dall’altro mondo. Languido e sexy – si ascolti “Charlotte’s tongue”, due fantastici accordi ripetuti in loop per oltre nove minuti – il neozelandese Mockasin ricorda quei musicisti ambulanti che nel Medioevo venivano perseguitati in quanto accusati di incoraggiare amori proibiti e passioni travolgenti. Campeau è invece un bizzarro e geniale chitarrista canadese di stanza a Sydney.

17
SAY SUE ME – Where we were together
Se il successo crescente del pop sudcoreano, ribattezzato K-pop, merita l’attenzione soprattutto dei sociologi, ecco invece dal sud-est asiatico questa notevole band di guitar-pop.

16
COSMO – Cosmotronic
MOTTA – Vivere o morire
Spetta a loro rappresentare il nostro paese nella playlist di fine anno. Il primo propone un elettro-pop intelligente e mai banale, sempre meno pop e sempre più elettronico a dire il vero; il secondo ci sembra il più interessante e imprevedebile tra i cantautori della nuova generazione: per noi, stacca di parecchi punti Calcutta e soci.

15
WOODEN SHJIPS – V
Da San Francisco – e da dove, se no? – eccovi una band di fricchettoni fuori tempo massimo. Ma che belle, queste chitarre psichedeliche e avvolgenti, scoperte per caso su Spotify. Per i nostalgici dello zio Jerry Garcia (e del primo Neil Young).

14
LAURIE ANDERSON with KRONOS QUARTET – Landfall
DAVID BYRNE – American utopia
In un’ipotetica e immaginaria “Guida ai grandi monumenti americani”, li troveremmo a poche pagine di distanza uno dall’altra. “American Utopia” è un’ironica, cinica e grottesca visione di un paese in crisi di identità e di entusiasmo, un paese in cui tutti sono/siamo nient’altro che turisti: “We’re only tourists in this life / Only tourists but the view is nice / And we’re never gonna go back home”. “Landfall” è un disco difficile: trenta frammenti di musica contemporanea e senza tempo, musica da camera, oscura e potente, incentrato sulla caducità delle cose.

13
ROSALIA – El mal quatal
Mai stati appassionati di musica latina, lo ammettiamo, ma questo album della venticinquenne catalana Rosalia, ispirato a un antichissimo romanzo occitano che racconta la storia di una donna rinchiusa in una torre dal suo amante, ci ha colpito per classe ed eleganza: ascoltate, ad esempio, la splendida “Bagdad. Cap. 7 – Liturgia”. Flamenco 2.0.

12
TRACEY THORN – Record
La voce storica degli Everything but the girl abbandona le atmosfere acustiche del passato e si diverte con un disco tra il soul e la dancefloor, pieno zeppo di synth e campionature. Tra i brani, scegliamo l’algida “Face” e il singolo “Sister”: “Sono io mia madre, adesso/ Sono io mia sorella (…) E mi batto come una ragazza”. (“Credo che sia nella mia natura essere femminista”, ha detto al proposito).

11
BEN LAMAR GAY – Downtown castles can never block the sun
Non solo Kamasi Washington. Cornettista tra i più apprezzati della scena prog-jazz di Chicago e non solo, Ben è al suo debutto come solista. Un disco di ricerca, sontuoso e collage dadaista e sperimentale di elettronica, jazz e atmosphere tropicali (vissuto a lungo in Brasile).

10
MITSKI – Be the cowboy
Nuova eroina della scena indie, la cantante nipponica trapiantata a New York stupisce per la complessità e la maturità compositiva. Disco dell’anno per Pitchfork.

9
BEACH HOUSE – 7
Una delle (poche) certezze rimaste nella scena indipendente (o quasi). Questa volta staccano gli amplificatory, e restano solo meravigliose melodie eteree e sospese nel vuoto.

8
ARCTIC MONKEYS – Tranquillity base Hotel & Casino
“I just wanted to be one of The Strokes, now look at the mess you made me make…”
Il sesto capitolo della band di Sheffield segna il punto di arrivo di una traiettoria già da tempo intrapresa: è un’opera pacata, misurata, equilibrata, molto più vicina alla musica d’autore che al punk-rock degli esordi.

Ha tuttavia un suono molto più vintage, con numerosi inserti di pianoforte, regalato a Turner dal produttore della band per il suo trentunesimo compleanno; sembrerebbe perfetto per una colonna sonora, magari di un hardboiled ambientato in una cupa Los Angeles.

7
BLOOD ORANGE – Negro swan
Devonté Hynes, in arte Blood Orange, ha tutti i numeri per diventare il nuovo fenomeno della black music. Eclettico, versatile, raffinato, sensual e curioso, è capace di spaziare con apparente facilità tra nu-soul, r&b, hip hop ed elettronica. E di raccontare le angosce e le speranze di chi – come lui – è nero e gay: “Nessuno vuole essere quello strano/Nessuno vuole essere il cigno nero”.

6
JANELLE MONAE – Dirty computer
Tante le affinità con Blood Orange, nei temi e nella sensibilità, e negli omaggi a Prince, in questo concept-album distopico su un mondo popolato da soli computer. La Electric Lady non delude, dopo il successo di critica e di pubblico del penultimo album; questa volta, con collaborazioni importanti: Brian Wilson, Stevie Wonder, Pharrell Williams, Grimes.

5
DJ KOZE – Knock knock
JON HOPKINS – Singularity
Il dj tedesco da alle stampe un album notevole e ricco di collaborazioni (ad esempio, Justin Vernon aka Bon Iver in “Bonfire” e Roísín Murphy in “Illumination”), un autentico e inarrestabile profluvio di loop. Per Hopkins la scuola è quella di Brian Eno, e infatti non mancano – intervallati a episodi da club come “Emerald rush” ed “Everything connected” – i momenti più ambient; ma il nostro ascolta anche Stravinsky e Ravel. Insomma, con cotanti maestri il compositore inglese non poteva fallire la sua prova più radicale e contemplativa, che parte da una nota singola (e da un viaggio nel deserto).

4
JACK WHITE – Boarding house reach
Terzo album per l’ex White Stripes, discontinuo e anarchico come mai prima d’ora, quasi Zappiano. Un compendio del blues contemporaneo: intenso, inquieto, spirituale. Monumentale.

3
COWBOY JUNKIES – All that reckoning
Bella e inaspettata notizia, il ritorno della band di Toronto, Canada, che tanto abbiamo amato per via di quelle “Trinity sessions” (1988) durante le quali rilessero in maniera magistrale la “Sweet Jane” di Lou Reed. Ancora una volta Margo Timmins e soci ci parlano di cuori vuoti, nidi vuoti, sentieri persi, vite perdute. “The things we do to each other” e “Mountain stream” sono classiche ballate folk dall’andamento disperato e narcolettico, mentre “Sing a song” è un atipico (per loro) e robusto rock’n roll preceduto dalle parole del presidente Carter.

2
TIRZAH – Devotion
In una classifica che vede molte voci femminili – vanno ricordati anche gli ottimi lavori di Cat Power, Neneh Cherry, Julia Holter, Sophie e Joan as Police Woman – vogliamo premiare con il secondo gradino del podio questa eccezionale cantautrice britannica (Tirzah significa “mia delizia” in ebraico). Ha collaborato con Tricky, si ispira a The Streets e a Robert Wyatt, e scrive bellissime canzoni d’amore su basi downtempo minimali e quasi astratte, se non decostruite (“Affection”, “Basic need” e la title-track). “Il romanticismo nell’era digitale”, è stato scritto.

1
LOW – Double negative
The end, nel vero senso della parola. Il nuovo Low, una delle bands più sottovalutate degli ultimi decenni, è un capolavoro tenebroso e intenso, da fine del mondo, tra “paesaggi” duri e inospitali (“Disarray” è forse l’unico – flebile, molto flebile – squarcio di luce). C’era una volta lo slowcore. Ora, l’apocalisse.

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