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Don Ferrari assistente in Cattolica, “sacerdote in mezzo alle persone”: “Il mio focus sono i ragazzi” foto

La redazione di “Universi” ha intervistato Don Luca Ferrari, assistente pastorale della sede di Piacenza dell’Università Cattolica di Piacenza. Una lunga conversazione durante la quale ci siamo fatti spiegare il ruolo del sacerdote nell’ambiente accademico e il suo rapporto con gli studenti.

Ecco l’intervista con le domande di Chiara, Hassan, Micaela, Alex e Roberta, preceduta da un’autopresentazione del “don”.

Mi chiamo Don Luca Ferrari e sono nato a Correggio, in provincia di Reggio Emilia; paese molto interessante dal punto di vista culturale e terra natale di Ligabue.
La promozione della vita comunitaria tra sacerdoti è sempre stato un segno distintivo nella mia vita.

Qual è il ruolo dell’assistente pastorale in Università?

Soltanto da quest’anno sono diventato assistente spirituale, mentre insegno teologia dall’anno scorso alla Cattolica di Piacenza.

Insegnamento della teologia e assistenza spirituale in una facoltà universitaria sono un valore sostanziale, non aggiunto, ma costitutivo della cultura della nostra Università.
Il ruolo dell’assistente spirituale è di natura prettamente pastorale: quello di un sacerdote in mezzo alle persone.

Materialmente che cosa fa l’assistente spirituale? C’è consapevolezza nella comunità degli studenti che esiste questa opportunità di avere un assistente spirituale?

Per la sede di Piacenza esisteva fino all’anno scorso un unico assistente spirituale sia per il collegio che per l’università.

Successivamente è stato importante che l’assistente fosse anche un docente, per questa ragione le figure di assistente si sono poi sdoppiate: una per la sede e una per il collegio.
Io sono assistente di sede ho il mio ufficio di fianco alla cappella, ma vivo in comunità, come da mia richiesta. Nelle sedi più piccole esiste un solo assistente, mentre le sedi più grosse ne hanno diversi.

Devo dire che le dimensioni peculiari della sede di Piacenza sono molto importanti, per offrire una dimensione quasi “familiare” e unitaria alla comunità di studenti e docenti, senza diventare una situazione angusta.

Come docente quest’anno seguo circa un migliaio di studenti: ho tutte le facoltà del primo anno e tengo il corso per il primo periodo della laurea magistrale.
Quindi conosco quasi tutti gli studenti. Diversi di loro vengono a colloquio da me per i problemi più diversi, soprattutto spirituali; il mio focus prioritario sono sicuramente i ragazzi.

Esistono anche particolari compiti istituzionali dell’assistente pastorale, che io valuto molto interessanti: incontro tutti gli assegnisti di ricerca, perché prima di entrare in servizio capiscano che cos’è l’università Cattolica, ne condividano le finalità e quindi sottoscrivano il proprio impegno; accompagno i ragazzi che hanno bisogno di aiuto negli studi – anche fuoricorso – o nel pagamento delle tasse, attraverso gli uffici competenti; dialogo con gli studenti che non hanno ricevuto il battesimo.

Chi si iscrive in questa università non deve professare fede cristiana, ma sapere che cristiano è il progetto formativo al quale intende aderire.

Quali sono i problemi più frequenti che riscontra quando uno studente viene da Lei?

Il problema più rilevante che vedo in questo momento è legato alla ricerca di figure di riferimento, di persone di cui fidarsi, a cui chiedere consiglio, e poter manifestare dubbi, ferite.
C’è una campagna non troppo favorevole nel confronto della figura del sacerdote, soprattutto come confessore in questo momento storico.

Si sta contestando il tema del segreto confessionale, garantito dalla Chiesa con la massima severità.
È evidente che qualcuno può averne abusato, ma questo non deve diventare pretesto per azzerare ogni spazio di discrezione e serietà dell’ascolto o dell’accoglienza.

Se nessuno può accogliere in modo trasparente, le ferite interiori non si possono affrontare o risolvere.
Le fragilità che gli studenti mi portano in questo momento sono legate soprattutto alla sfera famigliare, talvolta vissuti problematici all’interno del proprio nucleo parentale, o in contesti di convivenza allargati.

La tendenza al co-housing rappresenta concretamente questa contraddizione tra necessità di sconfiggere la solitudine e difficoltà di intraprendere e perseguire una convivenza. Indice di un disagio molto profondo, che spesso non viene però espresso o affrontato con strumenti adeguati.

Come assistente spirituale, ciò mi spinge quindi a cercare nuove strade di riumanizzazione e rielaborazione delle fragilità crescenti.

Don Luca Ferrari

Questo problema riguarda anche gli studenti dell’università?

L’Università Cattolica di Piacenza rappresenta per gli studenti un’opportunità di socializzazione straordinaria.

Ci sono persone che non abitano in città, eppure escono di casa al mattino presto e tornano dopo le 19 di sera, al termine di una giornata tutta trascorsa in università. Questo dice molto sulle occasioni di incontro e di stimolo offerte dalla sede piacentina. Ma non basta.

Io vivo in centro e lì mi trovo ogni tanto con qualche studente che desidera proseguire un dialogo, al di là del momento dello studio, per dare continuità alla relazione. In questa università i rapporti vengono cercati, in un modo che alle volte risulta sorprendente.

Tante persone rimangono stupite da come i ragazzi vivono l’università Cattolica: questo non è solo un ateneo per seguire corsi, ma una realtà dove trovarsi e ritrovarsi.

Com’è la relazione con studenti che professano fedi diverse? Come cercate di trasmettere agli studenti la necessità del dialogo ed integrazione tra religioni differenti contro i muri della diffidenza?

Il nostro è un compito privilegiato da questo punto di vista, per varie ragioni: conosco personalmente i ragazzi di altre religioni che arrivano all’università, perché all’inizio del percorso ho con loro un colloquio; quindi iniziamo i corsi sulla base di una conoscenza reciproca.

La frequenza dei corsi non è obbligatoria, perciò la percentuale di coloro che partecipano alle lezioni di teologia è in linea con le altre sedi. Chi frequenta mostra però attenzione e un indice di gradimento molto alto per tutti i corsi, in particolare per quelli di teologia.

Da un punto di vista di rating internazionale, come professori universitari di teologia siamo infatti collocati in alto nella graduatoria: se la Cattolica nel mondo è tra i primi 300 atenei, i suoi docenti di teologia sono tra i primi 100 al mondo, fra tutti gli insegnanti di scienze delle religioni. Forse perché cerchiamo di affrontare seriamente e con passione il nostro lavoro.
Questo vale per i cattolici, ma anche verso i non cattolici.

Vedo ad esempio ragazzi musulmani – ma anche fedeli di altre religioni- che vengono a messa, diversamente da cristiani che non lo fanno: molto interessati a capire e a conoscere, i primi trovano intorno alla proposta cristiana occidentale maggiore affinità rispetto ad una situazione totalmente priva di riferimenti a Dio.

L’insegnamento della teologia, non è catechismo, ma studio scientifico dell’approccio alla fede: in quanto tale offre numerosi spunti di comune interesse su cui instaurare un confronto genuino.
In tale direzione, cerco di favorire il più possibile interventi e domande libere.

Quali temi sviluppate nei corsi di teologia?

La teologia è un mondo vastissimo. Alla Cattolica hanno tentato di raccogliere i diversi approcci al tema di Dio e della fede cristiana (ciascuno con il suo metodo, la sua letteratura) in tre aree: la prima, che affronto io, riguarda l’antropologia- chi è l’uomo, chi è Dio, i fondamenti della fede, che cos’è la fede rispetto ad altre vie di conoscenza ed un’introduzione allo studio della Sacra Scrittura.

Il secondo anno normalmente si affronta la questione della morale- cos’è la morale cristiana, come da questa si deducono atteggiamenti e comportamenti corretti.

Il terzo anno ci si occupa della dimensione ecclesiologica – cioè come Dio può essere presente oggi?, in quali ambiti?, come riconoscerLo?-.

Durante la laurea magistrale, l’approccio alla teologia è di tipo sperimentale, da laboratorio: i concetti fondamentali assunti triennale, vengono applicati in ambiti specifici.

Io offro il mio contributo particolare, con il tema “misericordia, riconciliazione, giustizia”, trasversale a economia, giurisprudenza, ecologia (c’è un modo non etico di sviluppare colture ad esempio), scienze della formazione.

Organizzo seminari per far lavorare direttamente i ragazzi: forniti alcuni temi, io li accompagno e aiutandoli nella mediazione e nella elaborazione, con l’utilizzo di approcci il più possibile diversificati; spesso multimediali in triennale. In questo modo, cambiando continuamente registro, si riesce a entrare nel mondo della teologia dalle porte più diverse.

Secondo lei, è possibile arrivare ad una vera integrazione tra persone di diverse religioni, affrontando con gli studenti gli aspetti delle varie religioni, della tematica delle fede e di Dio?

Quando si dialoga tra persone intelligenti, il confronto è sempre interessante fonte di arricchimento reciproco e l’integrazione un traguardo possibile.

Il problema sorge con persone che pensano di sapere, ma non conoscono assolutamente nulla di ciò di cui parlano. In questo caso uno scambio fruttuoso risulta difficile, perché ognuno si trincera dietro proprie posizioni preconcette.

In Italia sta montando la paura, sentimento a mio parere dettato da ragioni diverse rispetto a quelle culturali e soprattutto religiose, utilizzate come pretesti per mascherare cause più pericolose e profonde. Poca intelligenza e scarsa attenzione dedicata all’integrazione, o peggio, speculazione e biechi interessi- nutrimento di povertà e illegalità- sono i veri motivi del timore crescente sul suolo nazionale e internazionale.

Ancora una volta però le soluzioni non vanno adottate con scarsa lungimiranza. Rispetto e integrazione passano anche attraverso un esercizio maturo di responsabilità e disponibilità, riconoscendo limiti e potenzialità di entrambe: siamo passati da discorsi ideologici di un tipo a ragionamenti faziosi di altra natura, a mio avviso sfuggendo il confronto con la realtà.

La sua vocazione è stata facile da capire oppure ha avuto dei dubbi e delle incertezze prima di diventare prete?

Sono entrato in seminario a 19 anni, ma prima ho avuto 3 ragazze. Queste esperienze sono state per me un bene importante, prezioso, anche per capire la mia vocazione. Le frequentazioni femminili mi hanno infatti aiutato a prendere sul serio la mia vita, in riferimento ad altri e non solo verso me stesso ed i miei obiettivi; cosa che oggi sembra mancare.

Ho capito la mia vocazione alla fine del liceo ed è stato come sentir fiorire interiormente un’attitudine maturata a piccoli passi, anche attraverso i legami vissuti: un richiamo a formare una famiglia molto più grande. Terrorismo ed estremismi di allora hanno fatto il resto: mi sono esposto in una scelta di libertà e di dialogo, di moderazione e rispetto, in un impegno anzitutto educativo.

Dall’inizio del seminario ad oggi, grazie a Dio, non mi ha mai sfiorato il minimo dubbio; sono ben contento di essere sacerdote.

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