Progetto Kamlalaf, l’esperienza di Sara dal Centro Kamenge in Burundi

Nelle righe che seguono, la testimonianza scritta da Sara Manstretta, tra i partecipanti all’edizione 2013 di Kamlalaf, a pochi giorni dall’arrivo a Bujumbura, capitale del Burundi, presso il Centre Jeunes Kamenge.

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Nelle righe che seguono, la testimonianza scritta da Sara Manstretta, tra i partecipanti all’edizione 2013 di Kamlalaf, a pochi giorni dall’arrivo a Bujumbura, capitale del Burundi, presso il Centre Jeunes Kamenge.
 
Ed eccomi in Burundi. La colonna sonora di questa specie di reportage è un gruppo pop burundese che canta in kirundi, la lingua di cui mi sto riempiendo testa e orecchie da ormai quattro giorni. Ho decisamente sbagliato l’indicazione temporale! Da solo quattro giorni, “solo” è la parola giusta. Perché sono venuta al Centre Jeunes Kamenge di Bujumbura, con la ferma intenzione di evitare l’atteggiamento peggiore del viaggiatore, e soprattutto del viaggiatore volontario: tirare conclusioni. Ho seguito un corso di formazione prima di venire qui, che mi ha insegnato, fondamentalmente, che l’unico modo per essere preparati a questo tipo di esperienze è sentirsi impreparati: solo così puoi avere occhi e orecchie davvero aperte. Il problema è che da “aperto” a “spalancato” a “terrorizzato” il passo è breve. Soprattutto quando arrivi in un posto che hai visto solo nei documentari di Piero Angela. 
Una massa di persone più scura della pece (bando ai moralismi) riversata sulle strade, biciclette cariche di qualsiasi cosa, porte-assi-travi, automobili con il guidatore a destra o a sinistra a seconda del caso, venditori di qualsiasi cosa appostati sul bordo, baracche con l’insegna “restaurant” o “fast food”, che espongono cose che assomigliano a cibi, bambini nudi e seminudi che corrono in mezzo alla strada totalmente incuranti della folle guida altrui, capre, rivoli d’acqua di un colore indefinito ai lati della strada… insomma, l’impatto non è dei più semplici. Come ambientarsi in un simile universo parallelo, senza cadere nella banalizzazione occidentale del “per fortuna che sono nata dalla parte giusta del globo”? 
Ciò che in questi giorni sto cercando di fare – e non è per nulla facile- è trovare in questo alter-mondo qualche traccia di familiarità, prendendo nota dei quei piccoli particolari che mi hanno colpito, senza poi farne un trattato socio-antropologico. Ed ecco allora che parto dalle cose più semplici. I ragazzi del mio gruppo di lavoro (piccolo particolare: costruisco mattoni impastando fango e acqua con altri 500 ragazzi del centro, di cui circa 490 hanno la pelle un po’ più scura della mia) parlano, nel migliore dei casi, il francese – che io capisco grazie alla conoscenza del dialetto piacentino – e nel peggiore lo swahili e il kirundi. Si chiamano tra di loro “uncle”, proprio come noi in Italia ci chiamiamo “zio”; anche qui i ragazzi si dividono in quelli che non hanno voglia di fare nulla e evitano in qualsiasi modo la vanga e il piccone, e quelli invece che instancabilmente fanno anche il lavoro dei loro compagni. Anche qui, durante la “formation”, il momento pomeridiano del campo in cui i ragazzi discutono temi di vario tipo, c’è chi si divora ogni parola e chi ridacchia con gli altri compagni, specialmente (ma come è piccolo il mondo!) durante la lezione di educazione sessuale. Anche qui le ragazze, finiti i campi, si truccano e si vestono con i migliori abiti. Anche qui trovi chi non vede l’ora di scambiare qualche parola con un ragazzo che proviene dall’altra parte del mondo e chi vede un eccessivo impegno mentale nell’adattarsi ad una nuova lingua. La differenza grande è che qui, al contrario dell’Italia, la maggior parte dei giovani appatiene alla prima categoria. 
L’accoglienza, che inizialmente sfiora lo sfottò, ora dopo ora, giorno dopo giorno, diventa una fisica presenza di ragazzi che ti cercano e ti parlano in qualsiasi lingua pensano tu possa capire. Quando scappi per dieci minuti (perché l’impegno mentale di mischiare italiano, francese, inglese, swahili, kirundi è quasi maggiore dell’impegno fisico di impastare mattoni) ti rimproverano per aver abbandonato il gruppo. Non importa se per capire devi farti ripetere le cose cinque volte, non importa se cercano di insegnarti 50 parole in swahili e tu ne ricordi due, non importa nulla di quello che potrebbe importare ad un qualsiasi ragazzo europeo con cui ti appresti ad iniziare una conoscenza… le persone vanno e vengono, ma tutti si ricordano il tuo nome, e tutti, tendenzialmente, fanno in modo di incontrarti. Non so cosa sia meglio, non so se potrei vivere sempre in questo modo, ma nemmeno voglio saperlo. Voglio permettere a me stessa di essere disorientata. Le conclusioni magari le tirerò tra una decina d’anni. C’est tout, maintenant. La vostra muzungu –che significa bianco ed è diventato il mio nome ufficiale- spersa in una altro mondo. Jambo!
Sara Manstretta
 

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