Kamlalaf, Sara a un mese dal ritorno: “Il mio cuore è rimasto in Burundi” foto

Pubblichiamo una nuova pagina di testimonianza di Sara Manstretta, che riflette sul significato del suo viaggio in Burundi presso il Centre Jeunes Kamenge della capitale Bujumbura, nell'ambito del progetto Kamlalaf

Più informazioni su

Pubblichiamo una nuova pagina di testimonianza di Sara Manstretta, che riflette sul significato del suo viaggio in Burundi presso il Centre Jeunes Kamenge della capitale Bujumbura, nell’ambito del progetto Kamlalaf

È passato quasi un mese dal mio ritorno in terra italiana dopo le 3 settimane di volontariato in Burundi. Già parecchie persone mi hanno fatto i complimenti per aver deciso di fare quest’esperienza. Hanno lodato il mio “coraggio”. Io questa cosa del coraggio non la capisco. Prima di tutto il coraggio presuppone sacrificio, e il sacrificio evoca dolore. In quelle tre settimane, il dolore più forte che ho provato è stato quello alla pancia per il troppo ridere. Il sacrificio più faticoso è stato alzarmi alle 6.30 ogni mattina, ma d’altra parte mio padre da una vita si sveglia alle 6 per andare a lavorare, mia sorella per andare all’università. Nessuno, penso, ha mai detto loro “che coraggio”.

Ho sostituito la mia colazione di crostini marmellata e cappuccino con un bicchiere di the caldo divino e una pagnotta di pane fresca: davvero un peccato.
Sono andata nei quartieri poveri di Bujumbura a fare i mattoni per 15 mattinate: i miei compagni di lavoro continuavano a dirmi di fermarmi perché ero sicuramente stanca (e non c’era modo di far loro capire che no, dopo 10 minuti di lavoro non ero stanca) e dovevo lottare per trasportare i secchi d’acqua per più di due giri consecutivi. I muratori italiani mi avrebbero giudicata una lavoratrice da poco, troppo impegnata a ballare “Ai se eu te pego” con i bambini per fare il suo dovere. A pranzo mi sono ridotta a mangiare riso e fagioli per tre settimane. Riso e fagioli a cui i miei amici aggiungevano avocado, banane (ma voi non avete idea di cosa sia il riso con le banane), cipolle, e a cui il Centro aggiungeva a giorni alterni uova, carne, patate, carote… la gente in pausa pranzo se li sogna dei piatti del genere.

Sono capitata in mezzo a ragazzi che non parlavano la mia lingua. Eppure cercavano in tutti i modi di farsi capire, di comunicare, di spiegarmi, di chiedermi: e ce la facevano. Sono più volte andata in Francia e non ho trovato persone che avessero la stessa volontà di farsi capire e di capirmi (con buona pace del mio amico francese anch’egli volontario in Burundi). La sera cenavo da re, le tagliatelle fresche avocado e panna del cuoco Patrice rimarranno sempre nel mio cuore. Le serate che passavo con i ragazzi del centro non avevano nulla da invidiare alle migliori serate che passo con gli amici italiani. Anzi, non c’era nemmeno l’ansia del “Cosa facciamo? Dove andiamo? Chi chiamiamo? Cosa beviamo?”: bastava stare insieme, il resto era superfluo. Il sabato sera siamo andati a ballare, i ragazzi di colore hanno il ritmo nel sangue, ti fanno girare come una trottola e conducono anche la ragazza più scoordinata facendola sentire una regina.

Qual è stato dunque il mio coraggio? Decidere di partire? Ma per favore! In questo nostro mondo pieno di cose, pieno di esperienze, pieno di possibilità, pieno di occasioni di passare le vacanze nei più svariati modi, il volontariato a detta di molti non è diventato altro che uno dei possibili riempimenti. Nasconde forse una gran voglia di mettersi in gioco e di dimostrare agli altri che ce la si può fare. Ce la si può fare a fare cosa? A estraniarsi dal mondo per tre settimane certi che tanto ci si torna? Un ragazzo del centro salutandoci ha detto “Voi qua vi trovate sempre molto bene. Ci promettete di tornare, ma poi vi perdete nelle vostre vite e vi dimenticate in fretta. Le nostre vite, invece, sono queste.”

Andare in Burundi per mettere nel curriculum “volontariato” è come andare una volta a fare una visita al canile, porgere un pezzo di pane ad un randagio per poi attaccare in casa la targa “amico degli animali” comprata il giorno prima al mercato. Il paragone ai cani non è casuale: il rischio è di trattare le persone come bestie da zoo. Non so il perché di tanta foga e tanto rancore in questa pagina. Non so neanche verso chi. Forse, prima di tutto, verso me stessa, per la grande, enorme paura di diventare “un’amica degli animali”. Forse verso quelle persone che smorzano le mie intenzioni di ritornare in Burundi con “è solo l’entusiasmo momentaneo”. Forse verso quelle persone che pensano che vedere come si sta dall’altra parte del mondo sia come vivere dall’altra parte del mondo. Forse verso quelle persone che non concepiscono nemmeno l’idea di rinunciare a minime, ma davvero minime, comodità, per tre settimane della loro vita: perché a maggior ragione non potrebbero fare a meno di ancor più piccole comodità, inutili e superflue, nella loro ricca e agiata quotidianità piena di sprechi. Coraggioso deriva dal latino “coraticum” e significa avere cuore. Solo in questo senso sono coraggiosa. Ho un cuore, ma è rimasto in Burundi.

Più informazioni su

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di PiacenzaSera, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.