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Misure anticrisi: investire nel benessere del personale dipendente serve?

In tempi di crisi è fondamentale per le imprese evitare la “destrutturazione precoce”, che non ha niente a che vedere con prestazioni sessuali a basso rendimento, ma con la capacità delle imprese di continuare ad investire nella struttura organizzativa ed evitare quindi la demotivazione

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In tempi di crisi è fondamentale per le imprese evitare la “destrutturazione precoce”, che non ha niente a che vedere con prestazioni sessuali a basso rendimento, ma con la capacità delle imprese di continuare ad investire nella struttura organizzativa ed evitare quindi la demotivazione; fenomeno che oltre a perdita di produttività ed efficienza può determinare che Funzioni importanti dell’impresa se ne vadano verso lidi ritenuti più interessanti.

E’ un problema che abbiamo affrontato in diversi articoli, in particolare nell’ultimo pubblicato in data 11 agosto concernente i migliori posti di lavoro in Europa, secondo una classifica stilata dal Great Place to Work Institute.

Riprendendo il dato pubblicato da McKinsey, nell’articolo sopraccitato, secondo il quale sostenere privatamente quota parte del fabbisogno di welfare dei propri dipendenti conviene (“ … il valore extra che produce il welfare aziendale può tradursi in un beneficio superiore fino al 70% rispetto al costo sostenuto”), se ne deduce che una delle strategie più significative per fidelizzare i propri dipendenti è proprio quella dei cosiddetti “benefit low cost”, ovvero pacchetti welfare mirati a favorire il benessere dei lavoratori a costo zero, o quasi.

Tali benefit si traducono ad esempio in: riduzione dell’orario di lavoro, telelavoro (per agevolare le esigenze di conciliazione tra lavoro e famiglia), erogazione di buoni per acquisto di beni e servizi.

Per le aziende spesso non rappresentano aumenti significativi dei costi aziendali, ma per i lavoratori, e le loro famiglie, invece si traducono in benefit che tendono ad aumentare considerevolmente il benessere personale e famigliare.

Anna Garanzini, responsabile risorse umane della sede italiana della texana National Instruments, dichiara che “i lavoratori hanno accettato una riduzione del 5% che per noi si è tradotta in 2 ore in meno al venerdì per quasi un anno. All’azienda ha permesso di investire, tornare a essere competitiva e non licenziare nessuno”.

Giovanni Fagotto, fondatore e presidente dell’italianissima Arredo Plast Spa di Treviso, holding da 230 milioni di fatturato, maggior fornitore di prodotti in plastica per l’Ikea, ci racconta una storia diversa: “assumo ma troviamo solo stranieri, perché gli italiani non hanno fame. Uno che viene al colloquio di lavoro accompagnato dalla mamma, l’altro che, al telefono, ti risponde che è interessato ma non prima di tre mesi perché sta studiando per la patente. Ma si può?”.

Fagotto ci racconta una storia che abbiamo sentito raccontare tante volte, forse troppe. La domanda che dobbiamo porci è: dov’è il problema? Sono le nostre aziende che non sanno essere particolarmente convincenti ed interessanti? Sono i nostri giovani che vivono in situazioni famigliari iperprotettive (i famosi “bamboccioni” dell’ex Ministro Padoa Schioppa)?

Trovare una risposta non è facile. Certo che girando in lungo ed in largo per la penisola, ci si immerge in un Paese dove si ha la netta sensazione che tutto sia fermo, ci si immerge in un Paese che  deve ricominciare ad essere convinto e convincente.

Andrea Lodi (economix@piacenzasera.it)

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