Applausi per Lanzillotta alla direzione della Toscanini FOTO foto

Applausi e consensi al Municipale di Piacenza per Francesco Lanzillotta, uno dei più promettenti giovani direttori nel panorama musicale italiano, che ha diretto sabato 22 febbraio la Filarmonica Toscanini

Applausi e consensi al Municipale di Piacenza per Francesco Lanzillotta, uno dei più promettenti giovani direttori nel panorama musicale italiano, che ha diretto sabato 22 febbraio la Filarmonica Toscanini, nell’ambito della Stagione Concertistica 2013-2014 della Fondazione Teatri di Piacenza.

Vario e coinvolgente il programma musicale proposto da Lanzillotta, infatti, accanto ai Quadri da un’esposizione di Modest Musorgskij nell’arrangiamento per orchestra di Maurice Ravel, il giovane direttore ha guidato la compagine nella Sinfonia da L’italiana in Algeri di Gioachino Rossini e nel Divertimento da Le baiser de la fée di Igor Stravinskij.

Nel Dictionnaire de musique (1767) Jean-Jacques Rousseau avanza una nota definizione dell’Ouverture: «Pezzo sinfonico che si propone squillante, imponente, armonioso e che serve a principiare le opere e altri drammi lirici di una certa estensione». Perciò il brano strumentale introduttivo appartiene al manufatto che segue, perché l’esposizione di taluni clichés sonori – secondo un rituale ben rodato – dispone l’attenzione dell’ascoltatore e allestisce l’ambiente sensoriale da cui sgorga il dramma. Ma questa interpretazione è ben presto contraddetta, dato che l’Ouverture (o Sinfonia, o Preludio) non sempre appartiene interamente a un suo dramma: in primo luogo, può essere reimpiegata per opere diverse e dunque la loro intima connessione narrativa viene meno. Per non parlare poi di quelle volte in cui la Sinfonia si allontana dalla sua sede per essere intonata durante un concerto, come una qualsiasi composizione per orchestra, e come accade anche stasera.

Un siffatto, vizioso (ma necessario) dibattito è destinato a non esaurirsi mai, specialmente quando ci si accosta alle sinfonie rossiniane. In queste gemme, oltre a riscontrare puntualmente tutti i caratteri estetici e funzionali recitati nelle definizioni dei dizionari, risiede un ulteriore lampante indole: quella di presentare a viva forza le generalità del compositore. Senza aggirare lo schema espositivo della forma sonata, senza rinunciare a giocare con gli strumenti, senza mai lasciare lo spettatore in preda al dubbio: «resto in teatro o scendo all’osteria?».

Ma a partire proprio da L’Italiana in Algeri (1813) lo stile sinfonico di Rossini intraprende una sua seconda maniera, particolarmente per effetto di un allargamento formale: un breve Adagio introduce due sezioni rapide, ripetuta due volte ciascuna, per terminare con una chiusa dove il frenetico crescendo la fa da padrone. Per quanto non venga meno l’omogeneità del tutto, le sezioni della Sinfonia sono distinte da caratteri contrastanti: un fatto che favorisce il trapianto del brano da un contesto all’altro senza causare alcun trauma, quand’anche si tratti di melodrammi di ambientazione e genere differente. La brillantezza dei temi e una loro certa qualità ‘parlante’, i grandi contrasti dinamici, il repentino passaggio dall’impeto al più tenue grazioso sono qui la garanzia della presenza drammatica: ma di un dramma ottenuto per sublimazione e perciò atto ad avviare una storia e magari, qualche mese dopo, una tutta diversa.

C’era una volta Rudy, un ragazzo svizzero che da bambino fu baciato da una fata, la Vergine dei ghiacciai, che lo voleva tutto per sé. La madre di Rudy muore durante una tempesta e il ragazzo viene messo al sicuro da alcuni cacciatori. Cresce diventando cacciatore anch’egli e si innamora della figlia di un mugnaio; ma alla vigilia delle loro nozze la fata lo reclama e, baciandolo di nuovo, lo fa inghiottire nel lago di Ginevra.

Stravinskij riprese in mano il libro delle favole di Hans Christian Andersen dopo vent’anni, ma se Le rossignol scaturiva da un racconto assai conciso, stavolta era alle prese con una specie di romanzo in quindici capitoli. Diversi temi di questa storia incantata e triste erano così calzanti da non poterne fare a meno nell’atto di creare un nuovo balletto. C’è il paesaggio della Svizzera, terra che aveva dato asilo al compositore negli anni della Grande Guerra, e che non aveva ancora cessato di offrirgli belle suggestioni e occasionale relax.

Dovette poi trovare la sua madeleine proustiana nel ghiaccio nevoso, lo stesso elemento che abitava il suo ricordo di Pietroburgo, dove i finlandesi giungevano a noleggiare le slitte trainate dalle alci per la gioia dei bimbi. Ma soprattutto in quell’anno 1928 ricorreva il trentacinquesimo anniversario della morte di Cajkovskij, per cui Stravinskij nutriva un culto particolare, e la prima edizione della partitura è infatti preceduta da una dedica che spiega la natura allegorica di questa scelta: come la fata bacia il ragazzo vincolandolo a sé, la musa ha impresso il suo sigillo fatale a Cajkovskij consacrandone tutta l’opera con un venerabile segno.

Così le Baiser de la fée nacque sotto le sembianze di un solenne tributo, condiviso dalla committente Ida Rubinštejn che in quel periodo desiderava avviare una propria compagnia a Parigi. Il musicista era allettato da un buon compenso e dalla cosiddetta “carta bianca” sul soggetto e sulla sua elaborazione sonora: questa si appoggiò anzitutto sul fatto che a Igor la produzione di Cajkovskij fosse famigliare fin dalla gioventù mentre l’Europa occidentale tendeva a sottovalutarla. Il campionario melodico di questo balletto attinge dunque dal repertorio pianistico e vocale cajkovskiano e si alterna con episodi di nuova concezione, secondo un processo di assimilazione linguistica che si compie in modo totale, annunciando il modus operandi di alcuni lavori successivi di Stravinskij.

La prima esecuzione del Baiser de la fée si svolse all’Opéra di Parigi il 27 novembre 1928; sebbene giudicò la compagine eccellente, il compositore non apprezzò il sistema di turni degli orchestrali, né gli piacque il risultato generale che poco teneva conto degli avvertimenti drammaturgici insiti nella partitura. E, purtroppo, si incrinò definitivamente la sua amicizia con Djagilev, che era capricciosamente in concorrenza con la Rubinštejn e perciò non gli poté perdonare un siffatto “tradimento”. Per agevolarne l’esecuzione in concerto, una Suite per orchestra fu ricavata a tre anni di distanza dalla première parigina, ma solo nel 1934 l’autore riorganizzò il materiale sotto il titolo di Divertimento, perfezionandolo in modo definitivo nel 1949. Questo si articola in quattro sezioni che rispecchiano le parti costitutive del balletto e al tempo stesso seleziona i passi più idonei a una fruizione svincolata dall’originario presupposto coreutico.

La traslitterazione di un brano musicale è spesso stata paragonata alla traduzione in letteratura: il più delle volte è eseguita da un esperto, di rado – ma con nobili risultati – da un altro scrittore. Così Maurice Ravel, scrittore uso addirittura a tradurre sé stesso, venne invitato nel 1922 a orchestrare una composizione pianistica dall’accoglienza non brillante e la curiosità fu tale da indurlo a sospendere la sua creazione originale del momento. L’invito giungeva, anche in questo caso, da un abile strumentista e direttore d’orchestra (Sergej Kusevickij) che aveva inaugurato una ricca stagione di concerti (i Concerts Symphonyques K) in una terra (Parigi) lontana da quella materna. In effetti, i Quadri di un’esposizione di Modest Musorsgkij non avevano avuto un successo immediato, probabilmente non esibivano il pianismo che potesse interessare i virtuosi e così vennero pubblicati dopo la morte dell’autore e con alcune ‘correzioni’ a cura di Nikolaj Rimskij-Korsakov.

Con questa grande Suite, nel 1874 Musorsgkij onorava l’amico pittore e architetto Viktor Hartmann; un altro amico aveva curato una mostra per ricordarlo a un anno dalla morte. Dunque i Quadri non si sono compiuti come mera raffigurazione in musica di un oggetto visivo, ma semmai come rappresentazione dell’animo del musicista intento a osservare l’opera, o a spostarsi verso un’altra riflettendo su quanto ha appena guardato. All’atto di tradurre per l’orchestra i Quadri, questo dato deve avere giocato un ruolo decisivo nelle scelte di Ravel, che ha potuto disporre di uno straordinario apparato tecnico di orchestrazione fino a creare un corpo tutto nuovo ma perfettamente conforme all’originale, che non solo ne salvaguarda il senso ma che lo amplifica.

La successione dei movimenti racconta lo spostamento del visitatore all’interno della mostra, ma intanto descrive un percorso morale, un cammino interiore di cui non è arduo seguire il divenire.

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