Le recensioni di PcSera.it: Verdena “Endkadenz”

E’ il 2011, e i Verdena danno alle stampe un album eccezionale, di assoluto livello: superata la fase di copiatura del modello Sonic Youth/Nirvana, i ragazzi di Albino, Bergamo, se ne escono un mastodontico lavoro composto da ben 27 pezzi brevi e concisi, che tuttavia non annoia mai grazie alla varietà compositiva e a continui cambiamenti di scena. 

VERDENA Endkadenz, Vol. 1 (2015) “Wow” è stato quasi uno choc (metafora). E’ il 2011, e i Verdena danno alle stampe un album eccezionale, di assoluto livello: superata la fase di copiatura del modello Sonic Youth/Nirvana, i ragazzi di Albino, Bergamo, se ne escono un mastodontico lavoro composto da ben 27 pezzi brevi e concisi, che tuttavia non annoia mai grazie alla varietà compositiva e a continui cambiamenti di scena.

Quattro anni dopo eccoli di nuovo con un’opera complessa. “Enkadenz, Vol.I” è infatti – ma va! – solo il primo di due volumi con lo stesso titolo, il secondo arriverà in estate. Il nuovo disco, il cui titolo richiama un effetto scenico teatrale (“Colpisci con tutta la forza possibile sulla membrana di carta del VI timpano, e nel frattempo, nella lacerazione prodotta, infilatici dentro tutto il tronco. Quindi resta immobile!”), nasce da una serie quasi infinita di jam session. Pare che in tutto ci fosse qualcosa come 400 brani. “Creiamo improvvisando”, dicono, “non stiamo a guardare le note. Insomma, vogliamo divertirci”. L’incipit è solenne: “Siedi tra noi, stipula un’idea”. E noi accettiamo l’invito.

Senza pentircene affatto. La classica “Ho una fissa” e la successiva “Puzzle” riprendono impeccabilmente il filo interrotto quattro anni fa e ci accompagnano senza strappi nella nuova collezione, che si distingue per la lentezza dell’incedere, i languori psichedelici (“Alieni tra noi”) e il sound piuttosto sporco. I brani veloci e aggressivi sono pochi, con la solita chitarra molto stoner (Josh Homme e Motorpsycho). Tra essi, il singolo “Un po’ esageri”, un blues bislacco, e la debole “Derek”, il pezzo più derivativo dagli anni ‘90. Prevalgono le ballate pianistiche: “Diluvio”, “Vivere di conseguenza” e “Contro la ragione”. C’è tanto pianoforte, non più tastiere come in “Wow”. Questa volta c’è spazio anche per archi e trombe e tromboni (finti). Così come le percussioni atipiche di Luca Ferrari. Talvolta le distorsioni soffocano le melodie – a eccezione di “Nevischio”, bellissima ballata dove prevalgono la pulizia del suono e la leggerezza del tocco (“Non cambierò mai di stile/non mi vedrai come adesso affondare/nel terreno che circonda il tuo viale/già, puoi restare senza/puoi restare senza”) – e questo per chi scrive non sempre è un bene. “Roccia nel deserto, di notte”, questo è il paragone che usano per descrivere il suono, “tutto spiattellato”. Il finale spiazza.

“Inno del perdersi” è un bellissimo caos organizzato, la tetra “Funeralus” ha una coda sinfonica in stile PFM. La rivalutazione del prog da postumo. In un’intervista al Mucchio, Alberto Ferrari dichiara di essersi ultimamente avvicinato ai Queen (!) e al Bowie della trilogia berlinese. La voce è cupa, sotto le righe, trattata spesso alla stregua di uno strumento qualsiasi. Alle volte soverchiata dal volume degli amplificatori, altre volte quasi trasfigurata. I testi sono al solito criptici, onomatopeici. E siccome stavolta ci hanno dato dentro coi distorsori – la voce è filtrata attraverso un pedale fuzz, il Petra di Effettidiclara, che aggiunge un’ottava – i testi sono ancora più criptici: in molti casi per conoscerli è necessario andarseli a cercare. Benzina e cenere. Brividi e cicatrici. Anime in pena. Invisibili come il polline. Nessuna gloria. Nessuna furia.

Giovanni Battista Menzani @GiovanniMenzani