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Carrie & Lowell (Sufjan Stevens), la RECENSIONE di PcSera.it

La prima sensazione dopo l’ascolto del nuovo, attesissimo, lavoro di Sufjan Stevens è stata una sensazione di sconcerto. Il folle e bizzarro compositore di Detroit ha forse rinnegato la svolta elettronica di The Age Of Adz, il suo ultimo album di studio (e il suo ultimo capolavoro)?

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SUFJAN STEVENS
Carrie & Lowell (2015)

 

La prima sensazione dopo l’ascolto del nuovo, attesissimo, lavoro di Sufjan Stevens è stata una sensazione di sconcerto. Il folle e bizzarro compositore di Detroit ha forse rinnegato la svolta elettronica di The Age Of Adz, il suo ultimo album di studio (e il suo ultimo capolavoro)? Dov’è finita la sua vena pop, seppur bizzarra? E tutti i consueti cori, così magniloquenti e barocchi? Gli archi? I fiati?

“Carrie & Lowell”, infatti, è una collezione di brani tristissimi, veri e propri bozzetti intimisti e bucolici, delicati arpeggi di banjo, 11 brani per 42 minuti di folk allo stato puro. Perfetto per gli amanti delle tinte grigie. E allora siamo andati a leggere qualcosa sul web, perché è vero, è una buona cosa ascoltare un disco con la testa sgombra di pregiudizi ecc, ma si rischia anche di prendere un granchio. Un granchio colossale.

L’opera è dedicata a sua madre Carrie – una figura fragile, schizofrenica e bipolare, incline all’abuso di alcool e farmaci, che lo aveva abbandonato – e al patrigno Lowell, già boss Ashmatic Kitty, etichetta che pubblica i suoi dischi (Sufjan è vissuto nel Michigan con il padre e la sua seconda moglie, oltre a un fratello). Carrie è recentemente morta di cancro in Oregon. (Sufjan aveva perso i contatti con lei da molto tempo).

Il disco si apre con “Morire con dignità”: “I forgive you mother, I can hear you/And I long to be near you/But every road leads to an end”. Il picco è certamente “I should have known better”, con quella sua coda sintetica in vecchio stile e un elenco di errori e omissioni nel rapporto tra lui e sua madre, tutto quello che avrebbe potuto fare e non ha mai fatto (“I should have known better/I should have wrote a letter”) in cui ognuno di noi può riconoscersi. Stevens si espone e affronta il tema in modo esplicito, a tratti crudo, come mai aveva fatto sinora.

Ma tante sono le canzoni che vi entreranno nel cuore: “Allof me wants all of you”, “Eugene”, la title-track e la superlativa “No shade in the shadow of the cross”. I versi sono, sì, pervasi dal dolore, ma non c’è pessimismo, bensì serenità e accettazione di una tragedia. Una quiete assoluta. “Questo non è un progetto artistico. Questa è la mia vita”.

PS1: per chi volesse qualche coordinata in più, sono stati scomodati Nick Drake, Eels, Bon Iver.
PS2: il 21 settembre p.v. unica data italiana, al Teatro della Luna di Milano (Assago).
 
Giovanni Battista Menzani
@GiovanniMenzani

 

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