“Piacenza Misteriosa”: Grotte e misteri della Rocca d’Olgisio

Giovedì 16 aprile alle ore 21 il Caffè letterario Melville di San Nicolò ospita la presentazione di “Piacenza misteriosa. Guida ai castelli infestati, alle vicende inspiegabili e agli altri enigmi del territorio“. 

Giovedì 16 aprile alle ore 21 il Caffè letterario Melville di San Nicolò ospita la presentazione di “Piacenza misteriosa. Guida ai castelli infestati, alle vicende inspiegabili e agli altri enigmi del territorio“. A cura di Paola Cerri, Gabriele Dadati e Barbara Tagliaferri, il libro prodotto dalle Officine Gutenberg parla di tanti luoghi di Piacenza e provincia, ricchi di fascino, storie e misteri. Ecco una breve anticipazione

Grotte e misteri della Rocca d’Olgisio

I luoghi della Rocca d’Olgisio dove maggiormente si addensano i misteri sono senza dubbio le sue grotte, che durante le Età del Bronzo e del Ferro, circa duemilasettecento anni fa, ospitarono gli uomini preistorici che vi stabilirono delle abitazioni o le trasformarono in sedi religiose, lasciandovi alcune testimonianze della loro cultura materiale. In periodi più recenti le stesse grotte furono al centro di vicende storiche e leggendarie e si caricarono di un nuovo alone di mistero. Prima di tutte la cosiddetta Grotta delle Sante Sorelle Liberata e Faustina, a cui si accede tramite una scalinata scavata nella roccia affiancata da una serie di sedili litici che sembrano intagliati dalla mano dell’uomo.

Su uno di questi si trova una sorta d’incisione raffigurante un ramo completo di foglie sormontato da una figura stilizzata. Sull’entrata due fori tondeggianti ricavati nell’arenaria stanno a testimoniare un’opera di palificazione che probabilmente avrebbe dovuto sostenere un rudimentale sbarramento. All’interno ci sono gradini e una formazione di pietra con un incavo alla base che potrebbe essere stata un’ara sacrificale, mentre su una parete si distinguono alcune lettere stilizzate che sembrano comporre la parola “ADE”, anche se non è affatto certo che debbano alludere al dio greco dell’Oltretomba.

È tuttavia verisimile credere che la grotta fosse un luogo di culto pagano molto prima che vi si recassero a pregare le due Sante Sorelle. Ma chi erano Liberata e Faustina? Si racconta che il fondatore della Rocca fu nel 550 un tale Giovannato, proveniente dal genovese, il quale, dopo una gioventù dedicata all’arte della guerra, venne a cercare pace e tranquillità in Val Tidone, portando con sé il pellegrino Marcello che aveva favorito la sua conversione al cristianesimo. Qui prese in moglie una brava ragazza del luogo, senza preoccuparsi troppo delle sue umili origini, che gli diede due figlie e morì prematuramente.

Liberata e Faustina, affidate alle cure di una governante ed educate alla religione dal pio Marcello, crebbero belle e piene di virtù e si opposero ben presto ai propositi del padre che le voleva accasare per assicurarsi alleanze e una robusta discendenza. Quando potevano si ritiravano a pregare nella grotta e covavano il desiderio di diventare monache, finché un giorno, pare con la complicità di Marcello, presero con sé oro e gioielli e fuggirono a Como, dove fondarono un monastero dedicato a Sant’Ambrogio. A Como le due sorelle furono anche protagoniste di un eccezionale episodio prodigioso: un nobile della città, forse posseduto dal demonio, aveva crocifisso la moglie. Mentre questa stava ormai morendo intervenne Liberata che la salvò guarendo le sue gravi ferite. Lo stesso Giovannato, inizialmente contrario alla vocazione delle figlie, manifestò poi la sua comprensione paterna, fino a destinare gran parte delle sue ricchezze alla costruzione del monastero, dove le due sorelle abbracciarono la regola benedettina, che muoveva allora i primi passi.

L’urna con i loro corpi si trova oggi sotto l’altare maggiore del Duomo di Como, mentre una reliquia, la tibia di Santa Liberata, fu traslata a Piacenza ed è ora conservata nella chiesa di Sant’Eufemia. Pier Maria Campi, studioso della storia ecclesiastica piacentina, ha scritto che anche il cuore di Santa Liberata fu trasportato a Piacenza e collocato nella cripta della chiesa dedicata a Santa Margherita. L’edificio, costruito dopo il Mille, venne rifatto in epoca barocca: sulla sua cripta si ebbero nei secoli successivi molte e confuse idee. Solo in anni recenti, tra il 1960 e il 1980, sono state compiute ricerche archeologiche mirate e si è scoperto che quei vani a lungo creduti una cripta in realtà altro non erano che i resti di una chiesa paleocristiana finita sotto il livello della strada, databile al VI secolo d.C. e dedicata proprio a Santa Liberata.

La Chiesa di Santa Margherita, sapientemente restaurata, ospita l’auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano. Alla leggenda delle due sante sono collegati altri elementi rivestiti di mistero che si trovano presso la Rocca d’Olgisio. Uno di essi è il pozzo che si trova nel cortile, che si dice scavato dal diavolo stesso quando, sotto le sembianze di un nobile cavaliere, aveva partecipato al torneo indetto da Giovannato per assegnare la mano di Liberata. Infatti le due sorelle avevano incontrato un giorno un corvo parlante, sotto le cui sembianze si celava il Maligno. Nel magnificare le gioie dell’amore terreno, il nero volatile aveva convinto le due giovani a chiedere al padre di emanare un bando per le loro nozze. Giovannato non si era fatto pregare e aveva proclamato che tra i pretendenti sarebbero stati scelti coloro che avessero portato in dote i gioielli più preziosi e dato prova del maggiore coraggio, battendo sul campo gli avversari. Al torneo si presentarono dodici cavalieri, a cui si aggiunse misteriosamente una presenza oscura che celava le sue sembianze dietro una veste nera e un elmo ben serrato.

Il tredicesimo uomo si faceva chiamare principe di Montenero e i suoi gioielli brillavano più d’ogni altro, mentre il suo coraggio e la sua abilità non conoscevano rivali. Dopo essersi aggiudicato la vittoria in tutte le prove, Satana si stava accingendo a sposare la povera Liberata, quando Marcello, nella veste di celebrante, gli mostrò la Croce declamando In nomine Patris… A quelle parole il diavolo, dimenandosi tra fiamme e nubi di vapore, cercò di fuggire balzando sul suo cavallo, ma entrambi furono ingoiati dalla profonda voragine che si era aperta nel terreno con un lungo boato e che è ancora chiamata Pozzo del Diavolo. Inutile aggiungere che, dopo questo episodio, le due sorelle rinunciarono per sempre alla vita mondana e si ritirarono a pregare nella grotta che ha preso da loro il nome. Il pozzo è profondo circa 50 metri e a mezza canna presenta un’apertura forse comunicante con una serie di gallerie che portano all’esterno della fortezza, utili per fughe precipitose in caso d’assedio. Il terreno fuoriuscito dalla voragine si accumulò e col passare del tempo s’indurì, formando un monolite a forma di fungo ancora visibile davanti al castello e battezzato “fungo del Diavolo”.

Ancora più inquietante è la Grotta del Cipresso, meglio nota come Grotta della Goccia, che all’interno presenta una grande vasca ricavata nella roccia dove si raccoglie l’acqua che filtra attraverso fessure naturali nella volta. La tradizione vuole che qui si conducessero i condannati per essere sottoposti alla tortura della goccia sul capo. Legati a un palo conficcato nella vasca, ne sarebbero usciti solo dopo una morte orribile causata dal lento sfondamento della scatola cranica per opera della goccia d’acqua che cadeva dall’alto a intervalli regolari. Lascia perplessi il fatto che non si notino tracce per gli alloggiamenti del palo o delle catene per bloccare in qualche modo il condannato. Altre grotte possiedono nomi affascinanti, come la Grotta del Riparo e la Grotta Nera, con la volta annerita dall’accumularsi della fuliggine di antichi focolari. Qui insistono le testimonianze lasciate dagli uomini che la sfruttarono come abitazione: gradini, sedili, giacigli e persino un forno per la cottura ricavato nell’arenaria a colpi di scalpello. Curioso fu l’utilizzo di quella che è conosciuta come la Grotta dei Coscritti, che servì come nascondiglio ai renitenti alle leve indette da Napoleone quando il territorio piacentino faceva parte del Regno d’Italia.
 

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