“Così abbiamo visto cambiare il carcere, i detenuti e il nostro lavoro”

Polizia penitenziaria, dopo 40 anni vanno in pensione l'ispettore Steri e il commissario Esposito 

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Dopo circa 40 anni di servizio vanno in pensione due persone che sono in servizio nel carcere di Piacenza  fin dagli anni 70/80, quando l’istituto era in via del Consiglio dove oggi c’è la Procura. L’ispettore capo Alberto Steri responsabile dell’ufficio Matricola originario della Sardegna e il sostituto commissario Carmelo Esposito, di origini campane, volto noto soprattutto in Tribunale e in Ospedale perchè responsabile dei servizi di traduzione e piantonamenti – un tempo affidati ai carabinieri – dei detenuti in occasione di processi o visite in ospedale.

Hanno cominciato la carriera indossando le stellette, con un’organizzazione di tipo militare; hanno conosciuto i grandi criminali e i delinquenti comuni quando in cella ospitavano quasi esclusivamente italiani, hanno visto l’attuazione della riforma del Corpo che dava una nuova denominazione al Corpo, non più “Agenti di Custodia”, ma Polizia penitenziaria. Hanno assistito alla sindacalizzazione del Corpo e hanno visto il carcere aprirsi alla società esterna con l’ingresso degli “esperti” educatori, psicologi, assistenti sociali, associazioni di volontariato. Ma “dietro le sbarre” hanno anche visto anche la parte buona e cattiva degli uomini.

Dal primo luglio Steri ed Esposito toglieranno il basco azzurro con la fiamma d’argento e si godranno la meritata pensione dedicandosi ai loro hobby. «Mi sono arruolato nel 1978 – racconta Esposito – quando il servizio di leva era obbligatorio e ho scelto di fare l’ausiliario negli allora Agenti di custodia». Dopo la rafferma, il corso per sottufficiali nell’87, i trasferimenti negli istituti di Voghera, Milano, Opera, Livorno e poi Piacenza. Stessa trafila anche per Steri, il quale dopo Oristano e Asinara venne assegnato a Piacenza e qui ha praticamente svolto la carriera.

Esposito dice che gli agenti attendevano la riforma – varata nel 1990 – da anni «per poter essere smilitarizzati, per avere un sindacato, per fare formazione. Prima, il lavoro si imparava dai colleghi anziani, con una specie di scuola/ lavoro. Oggi, nelle scuole di formazione, gli allievi apprendono, oltre alle nozioni di diritto, tante nozioni di psicologia e sociologia, gli viene insegnato che l’arma più importante è il dialogo e che i detenuti sono persone fisiche hanno dei diritti, dei doveri, ma anche tantissimi problemi di cui farsi carico».

Certo, oggi il carcere è più vivibile, ma i problemi negli Istituti di pena italiani restano tanti. Dalle strutture senza manutenzione, alla carenza di strumentazione per lavorare, alla mancanza di personale, ai sempre maggiori gesti di aggressione verso gli agenti. E’ migliorata la salubrità e – come nel nuovo padiglione piacentino – dove esiste  un sistema di riciclo dell’aria.

Ma il rapporto che rimane impresso è quello con il detenuto. I vecchi venivano chiamati “secondini” (guai oggi a chiamarli così, sono agenti di Polizia penitenziaria) avevano molto rispettato e, in particolare nelle piccole carceri,ove c’era un gran via vai di delinquenti comuni con i quali, però, si riusciva ad instaurare un rapporto di reciproco rispetto. «Oggi invece c’è molta maleducazione e aggressività – afferma Esposito – anche se riguarda una piccola parte della popolazione detenuta e diversi stranieri. Pensano di ottenere qualcosa con la prepotenza. Alcuni si spacciano per elementi dell’Isis. Poi magari ci parli e scopri che sono persone semplici e un po’ burlone».

La lingua, per tanti, però, rimane un problema, soprattutto per chi viene dall’Est o dal Nordafrica. «E anche per risolvere questi problemi – sottolinea il commissario – oltre a educatori e insegnanti ci sono anche i mediatori culturali». Nonostante questo «diversi stranieri vengono qui solo per delinquere, perché pensano che in Italia si facciano i soldi in modo facile. Molti li ho visti spaventati quando sono dovuti tornare nel loro Paese, perché temevano i metodi delle forze di polizia del loro Paese, che non sono uguali ai nostri».

Tra le tante situazioni vissute, Esposito ricorda quando, giovane agente, a Voghera salvò un detenuto che aveva tentato il suicidio per impiccamento. «Ero da solo in turno – racconta – e vidi quell’uomo appeso. Entrai in cella e gli tolsi il cappio dal collo, grazie anche all’aiuto del cappellano, l’unica persona che avevano trovato». Il rammarico, invece, è di non essere riuscito a salvare un 23enne di Ferrara che si tolse la vita bevendo il gas liquido di un fornelletto: «Era andato in bagno. Dopo pochi minuti non lo vedemmo tornare. Intervenimmo subito, ma non ci fu possibile salvarlo. La cosa peggiore fu telefonare alla madre per informarla dell’evento, un incarico che avrei declinato volentieri».

Ma Esposito ricorda anche chi criminale non è e quando varca la soglia del carcere si trova spaesato e abbattuto: «Ho visto persone in cella perché avevano spacciato assegni falsi e truffe. Alcuni di loro lo avevano fatto a causa della crisi economica, perché tentavano di salvare la loro impresa o la loro famiglia».

Infine, il commissario si sente di consigliare questo lavoro a un giovane: «Certo c’è lo stipendio, ma questo lavoro/professione è anche una missione in cui è assolutamente necessario credere. E’ dura, si vive quotidianamente sotto stress e sotto pressione, bisogna stare attenti. La soddisfazione è incontrare fuori dal carcere ex ristretti che ti salutano e sapere che per qualcuno, grazie anche al nostro impegno, una volta fuori ci sia qualche prospettiva». Nella foto, Alberto Steri (primo da sinistra) e Carmine Esposito (terzo da sinistra)

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