“La bellezza di abbattere le barriere” Il diario dal centro di accoglienza di Pozzallo  foto

Inizia con questa prima puntata il diario di Aurelia Barbieri su PiacenzaSera.it. Aurelia è una psicologa di Piacenza che fa parte del team di Medici Senza Frontiere all’interno del Centro di Primo Soccorso e Assistenza di Pozzallo (Ragusa) per fornire assistenza medica e supporto psicologico a rifugiati, richiedenti asilo e migranti

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Inizia con questa prima puntata il diario di Aurelia Barbieri su PiacenzaSera.it 

Aurelia è una psicologa di Piacenza che fa parte del team di Medici Senza Frontiere all’interno del Centro di Primo Soccorso e Assistenza di Pozzallo (Ragusa) per fornire assistenza medica e supporto psicologico a rifugiati, richiedenti asilo e migranti.

Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza. Ecco il testo

“In questi giorni non posso non essere rattristata dalle immagini di quel filo spinato di cui i Paesi si stanno circondando. Non circonda solo le frontiere ma anche le menti, i cuori, le ali. Accanto all’amarezza di quelle immagini, però, avverto un senso di privilegio. Il privilegio che accomuna tutti noi qui. Vediamo, sentiamo, respiriamo la bellezza di abbattere le barriere. E anche se non riusciamo a demolire quelle tra Paesi, abbattiamo quelle tra le persone. Ci proviamo. La bellezza del diverso ne ha superato la paura.”

Voglio iniziare questo “appuntamento” utilizzando le parole di Chiara, una mia collega. Non avrei saputo dire meglio quello che penso e sento rispetto a questa opportunità che ho, lavorando a Pozzallo (Ragusa) con Medici Senza Frontiere. 
E’ iniziato tutto in modo inaspettato e piuttosto rapido. Provo a raccontarvi la mia esperienza. 

A Pozzallo siamo un team composto da medici, infermieri, psicologi e mediatori culturali e ci occupiamo di assistenza medica e di fornire supporto psicologico alle persone che arrivano in Sicilia. Io sono arrivata il 26 agosto, un mercoledì pomeriggio, ultima di un team che è presente in Sicilia da un paio d’anni. Noi psicologi siamo in tre, su un gruppo di tredici persone il che dà l’idea di quanto l’aspetto “psi” venga considerato essenziale per il benessere delle persone. Con uno dei miei due colleghi ci occupiamo delle persone ospitate nei Centri d’Accoglienza Straordinaria (CAS), i luoghi in cui i richiedenti asilo rimangono, in attesa che la Commissione Territoriale valuti la loro storia e decida del loro futuro.

I primi giorni sono stati introduttivi, ho visitato i primi CAS, ho preso confidenza con il contesto e la domenica ho assistito al mio primo sbarco. Non vi nego l’agitazione prima di arrivare al porto e anche la notte prima. Quando siamo arrivati, la nave che aveva effettuato il salvataggio era appena entrata nel porto. Quel giorno sono arrivate circa 150 persone e una quarantina erano ragazzini, soli, dai 13-14 anni in su. All’inizio non riuscivo a guardare la barca, non volevo incrociare i loro sguardi, un po’ per paura di quello che avrei potuto vedere un po’ per un senso di pudore che mi suggeriva di non essere invadente. Questa sensazione è durata pochissimo. Al primo sguardo incrociato ho sentito che la realtà era molto lontana da quello che immaginavo. 

Faccio un passo indietro: quando ho saputo che sarei partita, ho chiamato un mio caro amico che lavora nella cooperazione, per condividere le mie emozioni e per chiedergli qualche consiglio e lui mi ha suggerito di guardare i video degli sbarchi per iniziare a prendere confidenza con quello che avrei potuto incontrare in Sicilia. Ho seguito attentamente il suo consiglio ma, quella domenica, ho scoperto che ciò che avevo visto nei video on line non è nulla rispetto a quello che ho iniziato a vedere e a sentire (con le orecchie e col cuore) incontrando queste persone. Usando tutta la mia immaginazione, non mi ero minimamente avvicinata a quello che è la realtà.

Quella mattina ho fatto molta fatica a trattenere le lacrime, ovviamente non era il caso di mettermi a piangere di fronte a dei ragazzini e a degli adulti appena arrivati in un porto che per loro poteva essere in qualsiasi parte del mondo, sbarcati dopo un periodo più o meno lungo in Libia e dopo aver abbandonato il loro Paese per motivi molto vari che ho scoperto solo più avanti, iniziando a parlare con loro. Quello che ho visto su quella nave erano ragazzini e adulti a piedi scalzi, con i vestiti sdruciti, con la sofferenza nel corpo e negli occhi ma anche con la forza di rispondere con un sorriso a un mio imbarazzato cenno di saluto. Faccio fatica a trasformare in parole le sensazioni che ho provato in quel momento, quello che so è che questo primo contatto molto concreto con la migrazione mi ha lasciata frastornata.

Successivamente, dalla banchina le persone vengono spostate nel CPSA – Centro di Primo Soccorso e Accoglienza di Pozzallo, lì vengono visitati e resteranno qualche giorno in attesa di essere trasferiti nei CAS, i Centri di Accoglienza Straordinaria. Di quel giorno ricordo, in modo estremamente vivido, i sorrisi stupiti e stremati in risposta a un saluto nella loro lingua, accompagnato da un sorriso. Vedere lo stupore di queste persone di fronte al nostro essere a disposizione con garbo e tranquillità mi ha dato, da subito, una misura di quanto per loro fosse qualcosa di inaspettato.

Ancora prima di incontrare le persone nelle sessioni individuali, di ascoltare le loro storie, di condividere le loro esperienze, quel giorno ho avuto il primo “scontro” tra la mia rappresentazione della realtà e la realtà stessa.
Quella notte ho fatto molta fatica ad addormentarmi, mi tornavano alla mente i loro sguardi e soprattutto la forza e lo stupore dei loro sorrisi nel sentire un contatto, nel vedere un sorriso. Mi tornava alla mente l’immagine che mi ero prefigurata del grado di sofferenza che vivono dal momento in cui lasciano il loro Paese fino a quando arrivano in Libia e poi in Italia.

Prima di partire avevo deciso di non mettermi a discutere con chi parla di queste persone con termini impropri, con chi li chiama clandestini, con chi dice “dovevano rimanere a casa loro” o “danno i soldi e la casa a loro e ci sono italiani che vivono sotto i ponti” ma dopo aver avuto contatto diretto con le loro storie ho cambiato immediatamente idea e non accetto più, silenziosamente, queste parole. Giusto per fare chiarezza: non sono clandestini, clandestino è una parola che io non sopporto, che mi fa venire voglia di lavare la bocca a chi la pronuncia, è una parola che non esiste nel Testo Unico sull’immigrazione e poiché le parole ci parlano è bene fare attenzione quando le si utilizzano; vengono via da “casa loro” non tanto perché sognano di venire in Italia ma perché molti di loro provengono da situazioni di pericolo estremo e la maggior scappa dalla morte o dalla tortura; i famosi 35 euro di cui si parla non gli vengono consegnati quotidianamente ma sono le spese che ogni Ente che gestisce i CAS, riceve per la copertura di tutte le spese connesse ad ogni singola persona, hanno l’avvocato che li segue nei ricorsi esattamente come ogni persona che, in base al reddito, può avere accesso al patrocinio gratuito.

Non possiamo ignorare che il dovere di solidarietà è sancito dalla nostra Costituzione e che il principio d’uguaglianza esiste poiché abbiamo tutti pari dignità.
Tornando a quello che vedo, sono persone sradicate, scappate nella maggior parte dei casi dal loro Paese e dalla loro vita, alla ricerca della possibilità di sopravvivere. Sono donne, sono uomini, ragazzi, ragazze, bambini, neonati. Sono donne incinte, sono anziani. Sono persone che hanno vissuto la tortura, la schiavitù. Sono persone che sono state a stretto contatto con la morte. Sono persone in cerca di una possibilità. 

Un giorno, un papà di 38 anni che era stato in Libia un po’ più di un anno, mi ha detto, raccontandomi la sua storia: “c’ho riflettuto e ho pensato: se moriremo, saremo insieme; se ce la faremo, saremo insieme” e alla luce di questa riflessione ha deciso di lasciare l’inferno libico e di partire insieme alla moglie e alla figlia, in modo che, insieme, potessero affrontare il mare e, magari, una possibilità di sopravvivere. 

Queste parole mi hanno fatto venire i brividi, ricordo che avevo il nodo in gola ascoltandole e guardando in volto un ragazzo della mia età che, se si prende la responsabilità di un viaggio rischioso per sé e per la sua famiglia sapendo cosa rischia affrontando il mare, lo fa solo perché dove sta ha la certezza che quella possibilità non esiste. (1- continua)

Aurelia Barbieri

MSF in Sicilia

In Sicilia MSF fornisce assistenza medica ai sopravvissuti delle traversate in mare dal 2002. Oggi MSF lavora all’interno del Centro di Primo Soccorso e Assistenza di Pozzallo, dove in collaborazione con il Ministero della Salute fornisce assistenza medica a rifugiati, richiedenti asilo e migranti. Nei Centri di Accoglienza Straordinaria della provincia di Ragusa MSF fornisce assistenza e supporto psicologico. Un’équipe di primo soccorso psicologico, composta da mediatori culturali e psicologi, è pronta a intervenire nei diversi porti italiani entro 72 ore. Con le tre navi impegnate quest’estate in attività di soccorso in mare, MSF ha salvato oltre 15.000 persone.

 
Inoltre, alle persone in fuga MSF ha dedicato la campagna #Milionidipassi, con un appello all’opinione pubblica e ai governi perché sia ridata umanità al tema delle migrazioni forzate e venga garantito il diritto di tutti ad avere salva la vita. I #Milionidipassi sono quelli che le persone in fuga fanno per sopravvivere, quelli degli operatori umanitari per assisterli, quelli che ognuno di noi può fare per sostenere questa azione. Visita il sito http://milionidipassi.medicisenzafrontiere.it
 
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