Star wars (Wilco), la recensione di PiacenzaSera.it

WILCO
Star wars (2015)
 
Quante sono le bands che dopo due decenni di onesta e celebrata carriera restano a certi livelli? Poche. Pochissime.

L’anno passato l’album doppio a nome Tweedy, registrato dal leader Jeff con l’ausilio del figlio Spencer,  batterista appena diciottenne, un album diretto e sincero come l’album di un esordiente registrato nella tavernetta al seminterrato, con le pareti ammuffite e l’intonaco scrostato, diretto e sincero e bellissimo, l’album doppio a nome Tweedy, dicevamo, aveva creato scompiglio tra noi fan della prima ora: era forse arrivata la parola fine per i Wilco, i maggiori rappresentanti dell’Amerikana contemporanea, ovvero quel genere che pesca piene mani nella tradizione U.S.A..?

Nulla di tutto ciò, fortunatamente. “Star wars”, il nono capitolo della saga (a proposito: cosa ci fa quel gatto in copertina? Mistero), è tanto breve quanto intenso. Solo poco più di 33 minuti, ma che qualità! Nessun cedimento al mainstream, nessun segno di stanchezza.

Un sound scarno ed essenziale, a volte persino spigoloso (il rock’n’roll arrabbiato (o quasi) di “Pickled ginger” e “Random name generator” – che bel titolo, non vediamo l’ora di ascoltarla dal vivo con ). Non manca il marchio di fabbrica, come nelle ballate “Taste teh ceiling” e “More…” (è di Lennon/McCartney?), ma gli episodi più notevoli sono di “Cold stope”, che parte come un blues a là Jack White,  la melodia di “The joke explained”, ma soprattutto la gemma psichedelica di “Magnetized” e la straordinaria “You satellite”, tra Lou Reed e i migliori U2. E poi quello sbilenco intro strumentale, “EKG”, da dove arriva?

Quante sono le bands oggi emergenti che dovrebbero chinarsi al cospetto dei Wilco, e allacciare loro le scarpe? Osassero la metà di loro, sarebbe già un colpo fantastico.
 
Giovanni Battista Menzani
@GiovanniMenzani