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Hopelessness (Anohni), la RECENSIONE di PcSera

Archiviata definitivamente la fase di Antony & the Johnsons e fatta la sua scelta di vita, la cantantessa trans gender newyorchese debutta dopo sei anni dall’ultima fatica con il marchio storico (“Swanlight”) con la sua nuova veste, abbandonando le ricche orchestrazioni e i barocchismi del passato

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ANOHNI
Hopelessness (2016)

 
Dopo un lungo silenzio – ma ho le mie motivazioni: la famosa invasione delle cavallette, e poi la tintoria non mi ha consegnato il vestito… anzi, no: la colpa è dei poteri forti. Che adesso va così – ecco il ritorno del modesto recensore alla periferia dell’Impero con una manciata di dischi da ascoltare.

In attesa dei big di settembre, da Frank Ocean a James Blake.

Tra i consigli spiccioli il ritorno al folk dei Mumford & Sons, che con l’EP “Johannesburg” collaborano con dei valenti e misconosciuti musicisti africani (il cantante senegalese Baaba Maal, i sudafricani Beatenberg, e infine i The Very Best, che addirittura arrivano dal Malwi: un posto che dovrete andarvi a cercare sul mappamondo…), poi l’ambient avvolgente degli Eluvium (“False readings on”), il darkwave dei Black Tape For A Blue Girl (“These fleeting moments”) e – è arrivato da poco – il divertente split Verdena/Iosonouncane, due tra i migliori artisti che la scena italiana offra al momento: la band bergamasca rifà alla sua maniera “Tanca” e “Carne”, entrambe tratte da “DIE”, mentre Jacopo Incani interpreta con classe e il suo tono surrealista “Diluvio” e “Identikit”.

Due parole in più per “Hopelessness”.

Archiviata definitivamente la fase di Antony & the Johnsons e fatta la sua scelta di vita, la cantantessa trans gender newyorchese – un tempo la preferita di Lou Reed – debutta dopo sei anni dall’ultima fatica con il marchio storico (“Swanlight”) con la sua nuova veste (questa volta sì, senza indugi femminile), abbandonando le ricche orchestrazioni e i barocchismi del passato.

In “Hopelessness” il mood è scarno e minimale, e come poteva essere altrimenti con quel titolo, e un’elettronica fredda ed elegante (forse un po’ modaiola?) fa da contraltare a una voce soul sempre intensa ed emozionante, anche se ora, inevitabilmente, manca lo stupore innocente delle prime volte.

Accodandosi alla tendenza, in atto, di dar vita a canzoni di protesta (qui c’è un attacco frontale a Obama, colpevole a suo dire di aver deluso tante attese) basate su testi taglienti e diretti su loop ricorrenti e basi digitali groove.

The modern dance, qualcuno ha scritto.
 
Giovanni Battista Menzani
@GiovanniMenzani

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