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Il Nobel a Dylan? Standing ovation. La nostra Playlist

Che casualità bizzarra, o scherzo del destino: lo stesso giorno in cui il nostro ultimo premio Nobel, il grande Dario Fo, decide di salire in cielo a insegnare agli angeli a non prendersi troppo sul serio, ecco che arriva la notizia del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan

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Dylan è premio Nobel per la Letteratura

Che casualità bizzarra, o scherzo del destino: lo stesso giorno in cui il nostro ultimo premio Nobel, il grande Dario Fo, decide di salire in cielo a insegnare agli angeli a non prendersi troppo sul serio, ecco che arriva la notizia del Nobel per la Letteratura a Bob Dylan.
Un bel pannicello caldo.

I puristi delle varie Accademie forse storceranno il naso – ma come: un cantante? – e la motivazione potrebbe non essere sufficiente a placare le polemiche: “Per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione della musica americana”. In ogni caso, al pubblico di Stoccolma è bastata: un boato ha accolto l’annuncio in sala.

Noi ovviamente ci uniamo idealmente alla standing ovation.

Felicissimi non solo per Dylan stesso – Dylan è Dylan, non si discute: il più grande di tutti, un autentico monumento nazionale – ma anche per la pari dignità riconosciuta a un artista della musica.

Mi si permetta un piccolo aneddoto personale (non lo faccio quasi mai, perdonatemi): l’amore per la musica e per lo stesso Signor Zimmerman è così grande che quando Alessandra Minervini, editor della mia prima raccolta di racconti – L’odore della plastica bruciata, LiberAria, 2013 – mi chiese a bruciapelo, durante il nostro primo incontro in un’afosa Bari di metà agosto, qual è l’autore che più ti ha influenzato?, io presi tempo e poi risposi: Bob Dylan. Bob Dylan? Bob Dylan. E… quale canzone, in particolare?, mi chiese lei, esterrefatta.

Non c’è tempo, ne servirebbe davvero troppo, per tracciare adesso la sua complessa e lunga parabola artistica, dagli inizi che lo vedono come il paladino dei diritti civili, il menestrello folk del Greenwich Village che cantava – con il suo stile sghembo e la sua voce rauca – i tempi che stavano cambiando, alla clamorosa e storica svolta elettrica, durante quel festival folk di Newport del 1965 – tradimento! – che fece scandalo e che aprì la strada alla più grande stagione che la storia rock ha visto mai, sino poi alla svolta spirituale e alla recente ripresa degli antichi temi politici e sociali (con rinnovata ispirazione).

C’è invece il tempo per stilare una piccola compilation personale. Un po’ alternativa, ma non troppo, comunque lontana dagli stereotipi e da quei grandi classici che purtroppo spingono alcuni a etichettarlo come un menestrello alle volte un po’ noioso (perdonate anche loro: non sanno quello che fanno).

Ecco allora che nella nostra playlist di oggi possiamo scegliere dal suo capolavoro “Highway 61 revisited” – oltre ovviamente a “Like a rolling stone” – anche la superlativa “Ballad of a thin man” e la dolente “Desolation row” tradotta in italiano da Fabrizio De Andrè.

Tuttavia, noi gli abbiamo sempre preferito “Bringing it all back home”, dal quale peschiamo a piene mani: “Love minus zero/No limit”, “It’s all right, Ma (I’m only bleeding)” e la più bella di tutte, quella “Subterranean homesick blues” (“Seminterrato acido”) influenzata dai “Sotterranei” di Kerouac e dalle “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevsky: quasi un rap ante litteram, dal videoclip davvero rivoluzionario.

“Blonde on blonde” può essere rappresentato da “Rainy Day Women No. 12 & 35” e dalla struggente “Sad Eyed Lady of the Lowlands”, e andando più indietro scegliamo “My back pages”, portata al successo dai Byrds e “I shall be released”, interpretata invece dalla Band.

Gli anni Settanta ci regalano perle come “The man in me” (nella colonna sonora del Grande Lebowski), “Knockin’ on heaven’s door”, “Forever young”, “Hurricane”, “Tangled up in blue”, “You’re a big girl, now” e “Shelter from the storm” (queste ultime tre dal meraviglioso “Blood on the tracks”. Dell’ultima cercate sul web la strampalata e irresistibile versione del mitico Bill Murray, nella sigla di chiusura di “St Vincent”).

Chiudiamo con il Dylan più recente, infine: “Most of the time”, “Not dark yet” (da “Time out of mind”) e “Sweetheart like you”, un oscuro brano da “Infidels” (1983), le ultime due tradotte pochi mesi orsono da Francesco De Gregori nel suo bellissimo omaggio al suo grande maestro.
Che è stato poi il maestro di tutti.

Giovanni Battista Menzani
@GMenzani

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