Referendum, a Piacenza l’affluenza sfiora il 73 per cento  foto

Referendum sulla riforma costituzionale, in provincia di Piacenza l'affluenza alle ore 23 di domenica 4 dicembre è del 72,84 per cento. Nel capoluogo ha votato il 72,88 per cento. 

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DATI AFFLUENZA ORE 23 – Referendum sulla riforma costituzionale, in provincia di Piacenza l’affluenza alle ore 23 di domenica 4 dicembre è del 72,66 per cento. Nel capoluogo ha votato il 72,88 per cento. 

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DATI AFFLUENZA ORE 19 – Referendum sulla riforma costituzionale, in provincia di Piacenza l’affluenza alle ore 19 di domenica 4 dicembre è del 63,21 per cento.

Si conferma, come già rilevato alle ore 12, un dato più altro confrontato con la media nazionale, ferma al 57%. A Piacenza città la percentuale oscilla di pochissimo verso il basso rispetto alla media provinciale, con un’affluenza del 62,75%.

Gazzola si aggiudica al momento la palma del comune del Piacentino dove si è votato di più, con il 68,40% (seguito da Pontenure, 67,29%). Il minor numero di cittadini alle urne è stato registrato a Zerba (49,33%), unico a scendere sotto la soglia del 50%.

DATI AFFLUENZA ORE 12 – In provincia di Piacenza l’affluenza alle ore 12 di domenica 4 dicembre è del 25,83%  per cento.

Un dato più elevato rispetto alla media nazionale che si attesta attorno al 20%. Il comune di Piacenza, dove la percentuale è pari al 25,78, è in linea con l’andamento provinciale. 

Coli è il comune del Piacentino dove questa mattina si è votato di più, con il 30,4% di affluenza (seguito da Travo, 29,63%), mentre la maglia nera della partecipazione per ora  va a Cerignale con il 19,65%, unico a scendere sotto la soglia del 20%. 

Nelle foto i seggi elettorali e alcuni politici piacentini al voto; l’onorevole Paola De Micheli, sottosegraterio al Ministero dell’Economia, Matteo Rancan, consigliere regionale della Lega Nord e Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd. 

Sul sito internet della Prefettura di Piacenza è possibile seguire l’andamento dell’affluenza (con rilevazioni alle 12, alle 19 e alle 23) e anche dello spoglio elettorale, mentre PiacenzaSera.it aggiornerà in tempo reale sullo scrutinio a Piacenza domenica sera.

Il referendum costituzionale – Dopo una campagna elettorale lunghissima, a tratti estenuante, nella notte conosceremo se vincerà il fronte dei favorevoli (per il Sì) o quello dei contrari (il No). 

A Piacenza e provincia sono chiamati alle urne 212mila 410 elettori, ma per la validità della consultazione di domenica non è previsto alcun quorum

Le operazioni di preparazione al voto sono state coordinate nei comuni come sempre dall’ufficio elettorale della Prefettura di Piacenza, diretto da Rosario Plescia (composto da Laura Arsiccio, Giuseppina Parella, Antonio De Notaris, Anna Ripa).

Lo scrutinio delle schede inizierà alle 23 subito dopo la chiusura delle urne: trattandosi di un referendum con una scelta secca tra Sì e No, sono preventivabili tempi relativamente rapidi per conoscere i risultati. 

Di seguito una guida sintetica al voto, con le informazioni per chi non ha ancora deciso se votare e come votare.

Quando e perché si vota?

Domenica prossima, 4 dicembre, si voterà dalle ore 7 alle 23 in tutta Italia in occasione di un referendum con cui gli elettori potranno decidere se approvare o respingere la riforma della Costituzione approvata dal Parlamento e proposta dal governo Renzi.

Non è previsto un quorum, quindi il risultato del referendum sarà valido indipendentemente da quante persone andranno a votare. Se la maggioranza voterà Sì, la riforma sarà approvata. Se la maggioranza voterà No, sarà respinta.

La riforma costituzionale in questione è una delle più elaborate ed ambiziose che siano mai state proposte in Italia e modifica 47 articoli su 139.

Il quesito

Sulla scheda elettorale il testo reciterà così: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della costituzione?”.

Cosa propone

Riforma del Senato

È la parte più importante di tutta la riforma: prevede una riduzione dei poteri del Senato e un grosso cambiamento nel metodo di elezione dei senatori. La riforma porrà fine al cosiddetto “bicameralismo paritario” (o “perfetto”), cioè la forma parlamentare in cui le due Camere hanno sostanzialmente uguali poteri e uguali funzioni: un sistema che non ha nessun altro paese in Europa. La riforma non elimina dunque il Senato, ma lo modifica. Il nuovo Senato, ad esempio, non darà la fiducia al governo, che quindi per insediarsi e operare avrà bisogno soltanto del voto di fiducia della Camera.

Il nuovo Senato sarà composto da 100 senatori: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e altri 5 saranno di nomina presidenziale. I nuovi senatori non saranno più eletti direttamente dai cittadini, ma i sindaci e i consiglieri regionali saranno scelti dai Consigli regionali con metodo proporzionale. Qui c’è un calcolo di quanti senatori verranno assegnati a ciascuna regione se venisse approvato il referendum.

La durata del mandato come senatori coincide con quella delle istituzioni territoriali dalle quali sono stati eletti, ad esempio dai Consigli regionali, che hanno scadenze differenti tra loro (nel 2015 ci sono state le elezioni in Campania, Veneto, Puglia e altre regioni; nel 2014 in Sardegna, Piemonte, Emilia Romagna e Calabria; nel 2013 in Lombardia, Lazio, Molise e in data diversa in Basilicata; nel 2012 in Sicilia).

I sindaci potrebbero essere eletti anche in scadenza di mandato. La composizione del nuovo Senato non sarà dunque fissa. Per i nuovi senatori è prevista l’immunità, ma solo nell’esercizio delle funzioni parlamentari e non invece in quella di consiglieri regionali o di sindaci. I critici della riforma hanno fatto notare come non sarà facile fare questa distinzione.

Riforma rapporto Stato – Regioni

La seconda parte più importante della riforma riguarda la riduzione dell’autonomia delle regioni a favore dello stato centrale. Questa riduzione si otterrà con la modifica del Titolo V della seconda parte della Costituzione, che contiene le norme fondamentali che regolano le autonomie locali.

Il Titolo V era già stato modificato con la riforma Costituzionale del 2001, quando alle Regioni fu garantita autonomia in campo finanziario (con cui poter decidere liberamente come spendere i loro soldi) e organizzativo (con cui poter decidere quanti consiglieri e quanti assessori avere e quanto pagarli). Nel 2001 venne previsto un elenco di materie su cui era competente esclusivamente lo stato e un elenco con la cosiddetta “potestà legislativa concorrente” nell’ambito della quale e in alcuni settori lo Stato si occupava della legge più generale e le regioni delle norme specifiche. Tutto ciò che non rientrava e non veniva nominato esplicitamente nei due elenchi era di competenza delle regioni. La complicata definizione e interpretazione di quegli elenchi ha portato a una forte conflittualità tra Stato e regioni su cui, dal 2001 ad oggi, la Corte Costituzionale è intervenuta più volte creando intorno alla definizione precisa degli ambiti di competenza una giurisprudenza.

La competenza principale che rimane alle regioni sarà la sanità. Nella riforma sono anche contenute clausole che permettono allo stato centrale di occuparsi di questioni esclusivamente regionali, nel caso lo richieda la tutela dell’interesse nazionale. Da questa clausola sono escluse le regioni a statuto speciale. La riforma porterà anche all’abolizione formale delle province, che negli ultimi anni sono già state progressivamente svuotate delle loro principali funzioni.

Elezioni del presidente della Repubblica, abolizione del CNEL e referendum

Il presidente della Repubblica sarà eletto dalle due camere riunite in seduta comune, senza la partecipazione dei 58 delegati regionali come invece avviene oggi. Sarà necessaria la maggioranza dei due terzi fino al quarto scrutinio: dalla quarta alla settima votazione saranno necessari i tre quinti e dalla settima in poi i tre quinti dei presenti (non del totale, quindi). Attualmente è necessario ottenere i due terzi dei voti fino al terzo scrutinio; dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta: Napolitano e Mattarella sono stati eletti così. Di conseguenza, la riforma dovrebbe garantire un’elezione più condivisa (sempre che ad esempio le opposizioni non decidano di lasciare l’aula, per qualche motivo: a quel punto la maggioranza potrebbe eleggersi un presidente praticamente da sola).

La riforma prevede anche l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, un organo previsto dalla Costituzione (all’articolo 99). Il CNEL è un “organo consultivo”, con la facoltà di promuovere disegni di legge (quasi mai usata nella sua storia).

L’attuale Costituzione prevede un solo referendum sulle leggi, quello abrogativo, che cioè chiede di cancellare leggi già approvate. Si basa su due parametri: raccolta di 500 mila firme e superamento del quorum per l’approvazione che è fissato al 50 per cento più uno. La riforma Boschi mantiene il limite delle 500 mila firme per la proposta di un referendum dando l’eventualità a chi ne raccoglie 800 mila di non doversi misurare con il quorum tradizionale ma con un quorum calcolato sulla base dei votanti delle elezioni politiche precedenti.

Infine, la riforma lascia aperta la possibilità di introdurre referendum propositivi, cioè per proporre nuove leggi (oggi invece i referendum possono solo confermare o abrogare leggi già approvate). La riforma non li introduce, ma rinvia a una legge costituzionale la loro possibile introduzione.

Il “combinato disposto”

Uno degli elementi più controversi della riforma è il risultato del famoso “combinato disposto“, ossia degli effetti combinati della riforma del Senato e della legge elettorale “Italicum” che, grazie al meccanismo del ballottaggio, assicura al partito che vince l’elezione una netta maggioranza alla Camera, indipendentemente da quanti consensi ha ottenuto al primo turno. Secondo i critici quindi, unendo la riforma alla legge elettorale (il famoso “combinato disposto”) si rischia di creare una Camera molto forte dominata da un partito di maggioranza che ha un numero di seggi del tutto sproporzionato rispetto al consenso ottenuto alle elezioni.

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