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Economix: La nuova rivoluzione industriale

Le misure approntate dal Governo per incentivare le imprese ad investire nelle nuove tecnologie (quali?) riguardano solo “timide” agevolazioni fiscali, per ottenere le quali, spesso, occorre entrare in impervi percorsi burocratici poco chiari

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Occorre andare indietro di quasi trent’anni per assistere al grande salto dell’industria manifatturiera europea: qui si produceva infatti oltre il 40% del valore aggiunto generato dal comparto manifatturiero.

Erano gli anni della robotizzazione dei processi industriali, con i primi vagiti dell’interconnessione digitale.

Secondo l’UNIDO, l’Agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, il Nordamerica e l’Asia rappresentavano rispettivamente il 23% ed il 28% dell’intero comparto.

INDUSTRIA 4.0 – Oggi la situazione è notevolmente cambiata: in un quarto di secolo l’Europa ha perso il 13,2% del valore aggiunto; ora la parte del leone la fa l’Asia, che rappresenta il 44,6% del valore aggiunto prodotto dal manifatturiero nel mondo. L’America del Nord, l’altro grande polo produttivo del pianeta, grazie soprattutto a significativi investimenti in Ricerca & Sviluppo, ha saputo dimostrare, a differenza dell’Europa, una certa tenuta: in venticinque anni ha perso poco più del 2%.

In Italia, sempre in pauroso ritardo rispetto agli altri paesi, si parla di Industria 4.0. Per l’appunto, se ne parla. Le misure approntate dal Governo per incentivare le imprese ad investire nelle nuove tecnologie (quali?) riguardano solo “timide” agevolazioni fiscali, per ottenere le quali, spesso, occorre entrare in impervi percorsi burocratici poco chiari che hanno come risultato finale, la mancata adesione da parte delle nostre imprese.

DISOCCUPAZIONE E MODELLI ECONOMICI – Israele, con un tasso di disoccupazione del 5,8%, un’economia sviluppata in vari settori e che vanta il più alto tasso di investimento in ricerca e sviluppo per PIL al mondo, ha addirittura elaborato un modello economico approntato sulla conoscenza.

Noi facciamo chiacchere, organizziamo convegni, diamo lavoro a ricercatori universitari e ad improbabili agenzie regionali per l’innovazione perché ci raccontino quali modelli imprenditoriali innovativi (non) possiamo assolutamente applicare, mentre i lontani israeliani investono pesantemente e realmente (senza chiacchere) sul personale qualificato, ritenendo gli “almost fifty” una risorsa, e non un peso sociale.

In Italia la situazione è ben diversa. I disoccupati “senior”, quelli che hanno perso il posto di lavoro dopo aver oltrepassato la soglia dei 50 anni, rappresentano un problema che è andato peggiorando negli anni della crisi: oggi ne fanno parte quasi 500mila lavoratori, in prevalenza uomini (61%), con una crescita record nel giro di dieci anni, +225%, che ha più che triplicato i 150mila del 2006. Non solo i giovani, dunque, hanno pagato il conto salato della crisi.

LA POLITICA – E la politica quali ricette ha offerto al Paese per risolvere, con un piano di medio/lungo periodo, la situazione? Già la politica. Ormai impegnata più a “combattere” – perché di questo si tratta – per la propria autolegittimazione che a preoccuparsi dello stato di salute del Paese, dal punto di vista del mercato del lavoro, ha puntato soprattutto sull’aumento della precarizzazione dei lavoratori. Fenomeno che un tempo interessava soprattutto i giovani, ma che oggi vede interessare l’intera popolazione lavorativa, con particolare attenzione verso la fascia sopracitata degli “over fifty”.

Gli altri, coloro che un lavoro ce l’hanno, non è che stiano molto meglio: l’aumento del costo del lavoro, i compensi più bassi d’Europa e la diminuzione del welfare non ci rende una popolazione particolarmente ricca e felice. E questo incide molto sulla produttività complessiva del Paese (che tra parentesi è una delle più basse tra i Paesi a capitalismo avanzato).

La vera nuova rivoluzione industriale/digitale interessa i Paesi asiatici. Troppo facile risolvere la questione con la solita “solfa” del basso costo del lavoro. Non è quello il problema. Si tratta di ben altro. Ne è una prova Israele: efficienza, chiarezza di idee, competenza, praticità, controllo, innovazione, presenza dello Stato. E’ questo su cui stanno puntando i Paesi asiatici.

Se continuiamo così, la possibilità di attingere ad un bacino di lavoratori a basso costo (vedi alla voce immigrazione) sarà l’unica possibilità, per le nostre imprese, per essere competitive.

Andrea Lodi (economix@piacenzasera.it)

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