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Il carcere, la scuola e il cinema. Universi intervista Alberto Gromi

Universi, la rubrica fissa di PiacenzaSera.it, che vi racconta il mondo dell’Università Cattolica di Piacenza da un punto di vista particolare, ha ricevuto nei giorni scorsi una visita speciale, quella di Alberto Gromi

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Universi, la rubrica fissa di PiacenzaSera.it, che vi racconta il mondo dell’Università Cattolica di Piacenza, ha ricevuto nei giorni scorsi una visita speciale, quella di Alberto Gromi.

Ex preside, ex docente della Cattolica di Piacenza, garante dei detenuti del carcere di Piacenza e anche attore negli ultimi due film di Marco Bellocchio.

Un personaggio così non poteva non diventare protagonista di un’intervista collettiva realizzata dai nostri redattori Chiara, Micaela e Hassan.

Una lunga chiacchierata che abbiamo sintetizzato così. 

Secondo lei si può parlare di rispetto della Costituzione per quanto riguarda le condizioni dei detenuti in Italia?

No. Questo è il problema più grosso delle carceri italiane. Purtroppo l’opinione pubblica viene informata solo sulle emergenze del carcere (es. il sovraffollamento). Ma non è solo questa l’emergenza del carcere.

L’emergenza del carcere è quella del rispetto della Costituzione, cioè la pena deve tendere alla rieducazione. E questo è molto difficile perché è tutta la struttura carceraria che deve andare in questa direzione. Non basta un’iniziativa per parlare di rieducazione.
Io ho protestato molto sulla circolare ministeriale per cui i carcerati più turbolenti vengono messi tutti nella stessa sezione dei “cattivi”; questo non ha senso perché metti insieme quelli che hanno più bisogno di stare con gli altri e di avere un rapporto normale con gli altri in ogni sezione.

Il carcere di Piacenza ha due strutture: il vecchio e il nuovo padiglione. Il nuovo padiglione è stato costruito negli anni 2011-2013, è costato tantissimo, può ospitare 200 detenuti e le celle, che ora si chiamano camere di pernottamento/di soggiorno, sono belle: non ci sono letti a castello ma brande singole, sono molto grandi e c’è il bagno con doccia.

In ogni sezione ci sono quelli più noiosi, quelli più lavativi, quelli più collaborativi e così via, e secondo me bisognerebbe metterli a confronto, e quando c’è qualcosa che non va lì sarebbe davvero necessario un lavoro di mediazione, per far capire che cosa funziona o meno, come mai ti stai comportando così. Un mese fa circa abbiamo incontrato la maggiore esperta in Europa di mediazione penale, Jacqueline Morineau, e sarebbe interessante fare un lavoro di questo tipo, ma il carcere non è pronto per queste cose. Quindi no, la Costituzione non è rispettata.

Facendo riferimento alla sua esperienza come garante dei detenuti dal 2010, cosa considera più necessario per attuare un’opera di rieducazione come afferma l’art. 27?

Dovete pensare che nel carcere di Piacenza ci sono 200 agenti e circa 440 detenuti. Gli educatori sono 3 di cui uno fa lavoro d’ufficio. C’è un ottimo servizio sanitario nel carcere di Piacenza e quindi c’è tutta una struttura di accompagnamento per quello che riguarda il “trattamento”, termine tecnico ma una parola terribile, che sta ad indicare l’attività di rieducazione. Ma siccome la sanità funziona molto bene e in particolare funziona bene la struttura psichiatrica, ecco che in tutte le carceri emiliane, quando c’è qualche caso che ha problemi psichiatrici, lo mandano a Piacenza.

Le mie risposte sono comunque condizionate dal mio ruolo di garante, che è quello di partire dal presupposto che, chi entra in carcere, non perde i suoi diritti costituzionali ma viene limitato un solo diritto, quello della libertà di movimento e, solo su decisione del giudice, altri diritti come la sospensione della patria potestà oppure non possono godere dei diritti civili, ma solo in alcuni rari casi.

Tutti gli altri diritti devono essere garantiti, quali il diritto all’istruzione, al lavoro, all’identità, al proprio nome, alla salute, alla conoscenza, alla libera espressione. Quindi io ho l’occhio un po’ male abituato, perché io vedo non il bicchiere mezzo pieno, ma mezzo vuoto perché devo garantire che quello che manca sia dato.

Ci sono anche elementi molto positivi come il volontariato all’interno del carcere, che fa un lavoro molto interessante e bello. Ma anche sul volontariato, a volte, ci si offre nei termini “Io so fare questo e quindi mi metto a disposizione” ma il tutto non rientra in un progetto educativo vero e proprio; c’è un progetto che è però totalmente istituzionale a cui manca il cuore del rapporto educativo.

Recentemente una volontaria mi ha detto “Io lavoro con le detenute e facciamo acquerello” e ogni attività può avere una funzione educativa, e allora le ho detto “Quando tu fai acquerello puoi cominciare a parlare con la persona quando guardate quello che la persona ha fatto; cosa hai disegnato? Perché hai usato questi colori?”.

Recentemente con le donne nel carcere di Piacenza, che presenta una sezione femminile ospitante dalle 15 alle 20 detenute di alta sicurezza (quindi tutte appartenenti ad associazioni mafiose o simili) abbiamo fatto un progetto di un ritratto autobiografico con una mia ex alunna che è diventata una fotografa famosa, Serena Groppelli, insieme ad una collega.

Le donne decidono come truccarsi e decide lei come farsi fotografare e poi, davanti alla fotografia, sceglie quella che le piace di più, facendo emergere il perché ha scelto questa e non quest’altra e, così, salta fuori tutto un vissuto. Perché ci sia un cambiamento la prima cosa da fare è raggiungere la consapevolezza.

Quando uno ha commesso un reato ed è in carcere, ben difficilmente pensa al reato che ha commesso. Capita spesso che vengano da me a dirmi “Io sono innocente”; soprattutto chi non conosce la legislazione italiana (il 60% dei detenuti sono stranieri) crede che il garante abbia un potere illimitato. Però è difficile che ci sia una riflessione “cos’ho fatto”, “perché”, “c’è una vittima” cioè “c’è qualcuno che ha subito quello che io ho fatto” … allora è necessario tutto un lavoro su di sé, di autoconsapevolezza, di autoriflessione.

C’è un brano bellissimo di un detenuto di Padova sulla rivista della redazione giornalistica del carcere, chiamata Ristretti Orizzonti, che racconta come, durante una delle riunioni della redazione con alcuni studenti in visita al carcere, una domanda di una professoressa abbia scatenato in lui una riflessione profonda su quali sono state le vittime dei suoi reati.

Fino ad allora lui ha sempre pensato che le sue vittime fossero le banche e le assicurazioni, ed era molto contento di ciò, perché loro rubano soldi alla gente e lui li va a rubare a loro. Tale riflessione ha cominciato a fargli ricordare delle persone che sono state coinvolte nelle sue rapine e alle loro reazioni: ha cominciato a capire che le sue vere vittime non erano le banche e le assicurazioni, ma delle persone.

Come è nato il suo interesse per il mondo del carcere?

Nella seconda metà degli anni ’60, quando c’era stato tutto lo sconvolgimento, era venuto fuori un discorso molto serio sulle istituzioni totali, cioè gli ospedali, le caserme, il carcere, in parte anche la scuola. Ad esempio per i manicomi, è intervenuta la legge Basaglia che ha rotto questa istituzione. Ci vorrebbe un Basaglia anche per il carcere. Però in seguito a queste sollecitazioni ci sono state delle esperienze significative, noi a Piacenza siamo stati un po’ degli antesignani in questo.

Siccome io lavoravo con un gruppo che andava a incontrare i ragazzi di un carcere minorile a Pizzighettone, abbiamo pensato bene di aprire a Piacenza una comunità, quella che oggi si chiamerebbe casa famiglia, dove mia madre e io avevamo un gruppo di ragazzi. C’era con noi anche un agente che però veniva chiamato educatore.

Il termine educazione è malvisto in carcere, tant’è vero che gli educatori si chiamano adesso funzionari del servizio giuridico-pedagogico, perché la parola educatore suona male. Quindi, erano chiamati educatori ma in realtà erano guardie. È stata una esperienza che poi è finita, poi ero diventato assistente volontario nel carcere di Piacenza. Quando si è trattato di nominare un garante, chi si occupava di problemi carcerari mi ha ritenuto la persona giusta viste le mie esperienze pregresse. Nel 2010 il sindaco Reggi, visto che non c’erano imminenti elezioni, ha nominato me come garante, ovvero l’unico a presentare domanda.

I garanti, da una decina d’anni, sono nominati in alcuni comuni e regioni. Il garante comunale o provinciale ha alle spalle non una legge ma un provvedimento amministrativo: io sono nominato dal sindaco di Piacenza e decado col sindaco di Piacenza. Siccome è stato modificato lo Statuto comunale per inserire la figura del garante e adesso c’è, teoricamente il futuro sindaco dovrebbe nominarne un altro. Nonostante ciò non risulta essere una delle priorità.

I garanti regionali hanno alle spalle una legge regionale. C’è poi un garante nazionale: sono stati presentati tanti disegni di legge per nominare un garante nazionale ma non andavano mai in porto. Ultimamente è stata approvata la legge ed è stato nominato anche il garante nazionale. In Emilia hanno il garante Piacenza, Parma, Bologna e Ferrara, forse Rimini anche.

Come descriverebbe e valuterebbe l’esperienza di insegnamento presso l’Università Cattolica di Piacenza, anche alla luce del suo ruolo di preside e del suo costante interesse per i giovani e per l’insegnamento?

Io ho fatto l’Istituto Magistrale, da cui, allora, si usciva maestri, poi mi sono laureato in Pedagogia. Ho cominciato ad insegnare nel 1963, ho insegnato per 5 anni a Gropparello, anni bellissimi, dovete pensare che con molti studenti di Gropparello ci troviamo ancora oggi a pranzo 2 o 3 volte l’anno.

Era appena partita la scuola media prima unificata e poi unica, quindi tutti i paesi con 3mila abitanti dovevano avere la scuola media. Poi sono passato alle superiori, mi sono abilitato, e ho insegnato a lungo storia e filosofia nei licei. Ho insegnato al liceo scientifico di Fiorenzuola, al liceo scientifico di Piacenza, al liceo classico Gioia di Piacenza.

Successivamente c’erano grossi problemi al liceo Respighi e il provveditore mi ha proposto di fare il Preside lì, dove sono rimasto per 3 anni come Preside incaricato. Intanto è uscito il concorso per Preside, che non usciva da anni, allora con alcuni piacentini abbiamo deciso di iscriverci.

Nel mentre che veniva svolto il concorso, io mi ero stufato di fare il Preside e sono tornato ad insegnare per 1 anno. Poi ho vinto il concorso, ero stato nominato a Verbania, in seguito a Piacenza e sono arrivato al Gioia. Nel ’98 sono andato in pensione, dopo 40 anni di servizio. Sempre nel ’98 è partita la Facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione e il professor Guasti mi ha chiesto di dare una mano.

Ho cominciato a fare l’assistente con Mario Ferracuti, avevamo come allievo suo nipote, Roberto, vigile urbano morto in un incidente, che è stato il primo laureato della Facoltà. Ho cominciato ad avere l’incarico per l’insegnamento di Pedagogia Generale e ho smesso dopo il compimento dei 70 anni, terminato il mio incarico triennale.

Esperienza è stata bellissima, perché ci sono i pregi e i difetti di una piccola facoltà: difetto è che sembra di essere in un Liceo; il pregio è che si conoscono tutti gli studenti. Voi dovete pensare che io sono arrivato qui in Università a fare il professore e ho trovato tutti gli studenti che avevo avuto al Gioia.

Nel 2005 ho cominciato ad andare in Kenya perché uno studente della Facoltà, Gianluca Sebastiani, si era laureato con una tesi sui bambini di strada del Kenya. Allora mi ero interessato e lui mi ha proposto di andare con lui: da allora ho fatto 9 viaggi, anche con le studentesse che dovevano fare lo stage, all’interno del tirocinio. Invece di fare uno stage presso una struttura piacentina che potete visitare quando volete, andiamo a vedere come lavorano gli educatori con i bambini di strada, e sono state delle esperienze molto interessanti e molto dure, stavamo via 3 settimane.

Cosa l’ha spinta ad entrare nel mondo dello spettacolo? Com’è stata l’esperienza da attore, anche in film che hanno avuto un’eco internazionale?

Ho cominciato a 6 anni, non nel senso che salivo sulla seggiola e recitavo la poesia di Natale. Io ho passato i miei primi 24 anni di vita in Via Daveri, che allora era Via Pavone, che unisce Piazza Duomo a Via Roma. Andavo in Parrocchia in Duomo; nel salone del Duomo c’era un teatrino meraviglioso.

Allora, nel 1945-47, tutte le Parrocchie avevano una compagnia teatrale, e la domenica andavano presso i teatrini delle altre Parrocchie. Io mi sono appassionato perché da ragazzino non avevo i soldi per entrare nel teatrino e allora mi mettevo fuori delle porte a vetri, non sentivo niente ma vedevo le luci del palcoscenico, gli attori che recitavano, e io avevo un grande entusiasmo, ero molto affascinato, e poi qualcuno provava compassione e a metà spettacolo qualcuno mi faceva entrare.

Questo fino a che anche io sono andato su un palcoscenico. Poi ho avuto un periodo in cui ho interrotto durante l’Università. Un mio amico aveva fondato una compagnia teatrale, Dante Capra; il Gat, Gruppo Attività Teatrale, con cui abbiamo fatto cose importanti, come il Miguel Manara di Milosz e l’Annuncio a Maria di Claudel e tante altre cose.

Nel ’78 mi avevano chiesto di fare una pubblicità per un negozio di elettrodomestici, e io facevo come la pantera rosa che passava davanti ad una finestra, vedeva una pentola e la rubava e poi scappava via. Come son diventato Preside è immediatamente comparso sulla copertina del giornale “Gromi che ruba le pentole” e quindi sono stato un po’ costretto a smettere.

Successivamente ho ripreso e ho fatto molti corti, ho conosciuto gente. Quando c’è stato “Sangue del mio sangue” (il film di Bellocchio ndr), due miei ex alunni del Gioia, che erano dentro la macchina organizzatrice di Bellocchio, mi hanno detto di fare il provino, e ho così ottenuto la parte. Mi ha chiamato subito dopo per fare il direttore della Stampa in “Fai bei sogni”.

Il primo dei due film doveva intitolarsi “L’ultimo vampiro”: c’è questo personaggio che vive al buio, esce solo di sera, in una stanza del convento, e ha il dominio su tutto il paese; a un certo punto, i maggiorenti del paese arrivano dal vampiro e il vicario generale gli dice che è ora di andarsene, e così muore. Io recito la parte del vicario generale che liquida il vampiro.

Arrivato sul set, c’era Valerio Mastandrea, Fabrizio Gifuni, e allora ti chiedi “adesso cosa faccio?”. Invece l’ambiente è molto accogliente, Mastandrea ad esempio è un ragazzo meraviglioso, di una semplicità e grande disponibilità. Io alla sera sono sceso per andare a cena al ristorante, non mi sarei mai sognato di andare al tavolo di Mastandrea.

Stavo andando al mio tavolo, quando sento: “Alberto vieni qui dai, mangiamo insieme che sono solo”. È stata una bella esperienza, dovete pensare che io ho girato per due giorni. Ma ci sono state scene ben più tribolate delle mie. Ricordo una scena in cui dovevano portare un cioccolatino e l’avranno girata 15 volte, a un certo punto vediamo il cioccolatino che si scioglie, tutti abbiam detto “Non c’è più il cioccolatino, andrà bene”. Allora “Portate un cioccolatino nuovo!”.

La redazione di Universi

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