Una “Lunga giornata verso la notte” della famiglia americana

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Una valanga di parole disperate, che disfano senza preoccuparsi di ricostruire e svelano verità nascoste ma non per riappacificare.

La “Lunga giornata verso la notte” di Eugene O’Neill (traduzione di Bruno Fonzi) portata in scena a Teatro Due di Parma dal regista Arturo Cirillo (produzione Tieffe Teatro Milano), si svolge da copione in un arco temporale solo apparentemente breve, ma sufficiente ai membri “sconfitti” della famiglia Tyrone per mandare in frantumi ogni illusione.

L’apparente armonia “recitata” dai personaggi all’alba di un nuovo giorno, mentre dalla finestra di casa filtrano i raggi del sole, finisce presto in pezzi, facendo affiorare una frustrazione e un dolore che si fanno sempre più intensi mentre scorrono le ore e la nebbia – che non lascia intravedere nulla fuori da quelle mura, neppure la speranza – si fonde con il buio.

Lunga giornata verso la notte

Il padre James è un ex-attore ricco quanto avaro e povero di sentimento, abituato a rifugiarsi nell’alcol, “panacea” di tutto il nucleo famigliare; la madre Mary una donna segnata dalle droghe, persa nelle ambizioni mai avverate della sua giovinezza; il figlio maggiore James Jr. un commediante fallito e un mantenuto senza volontà, perseverante solo nel vizio, mentre il figlio minore Edmund è un nevrotico reso più fragile dalla ricerca di emozioni in avventure fini a se stesse, che ora lo approssimano alla morte.

Il confronto-scontro si consuma su un meta-palcoscenico, un tinello attorniato da camerini dove il costante alternarsi tra verità e menzogna, tra recita e confessioni “autentiche”, aggiunge ulteriore angoscia a un testo (scritto dal drammaturgo americano più di 70 anni fa) dal ritmo incessante, volutamente privo di tregua.

Il progressivo avvicinarsi allo svelamento degli incubi personali e famigliari, neanche tanto celati, assume forza grazie alla convincente e affiatata interpretazione di tutto il cast; la fredda disillusione del patriarca James (Arturo Cirillo), la debolezza decadente e a tratti isterica di Edmond (Riccardo Buffoni), l’astio nascosto dall’aria da bontempone di James Jr. (Rosario Liana) e la dissociazione di Mary (una grandissima Milvia Marigliano), indotta dalla morfina, tracciano un ritratto di famiglia divorato dalla disperazione, dalla dipendenza, dal senso di colpa e da una nostalgia maligna.

Un sogno americano sfasciato dalla disfunzionalità del suo stesso pilastro, che si riflette in una collettività destinata suo malgrado al non senso.

Un dramma calato nella dimensione sociale del proprio tempo, la cui iniziale “distanza” viene abbattuta man mano che si afferma il canto della tragedia, ancora perfettamente attuale.

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