Quel “recitar cantando” che insegna a guardare oltre. L’omaggio a De Andrè alla Camera del Lavoro foto

“Un vascello per portar parole”: era questo la musica per Fabrizio De Andrè.

E quel “recitar cantantando” – protagonista venerdì sera al Salone Mandela della Camera del Lavoro piacentina – per omaggiare in concerto l’indimenticabile cantautore genovese a vent’anni dalla morte, è stata la miglior prova di fede alla sua convinzione.

Una serata, dal titolo “L’incanto di Fabrizio”, all’interno della rassegna “Musica al Lavoro” promossa ogni anno da Arci e Cgil.

A ricordare chi non si considerava “poeta” nè “musicista”, ma “semplicemente cantautore” – Faber per gli amici – ci ha pensato il baritono e attore milanese Lorenzo Castelluccio (voce e chitarra), accompagnato da Giampietro Marrazza alla fisamormica e Carlo Zerri al piano. Un salone affollato per la serata più attesa, sentita e partecipata della rassegna.

La formazione ibrida del gruppo musicale, tangibile nei pochi, ma ben caratterizzati strumenti – il timbro classico del pianoforte e quello popolare di fisarmonica e chitarra – ha favorito la messinscena del De Andrè più genuino che tutti conosciamo: quello che per primo ha parlato al pubblico senza mediazioni, ma anche senza compromessi, grazie alla semplicità delle melodie unita alla raffanatezza dei testi.

La parola è al centro di storie che nascono come racconti pensati con la musica, non per la musica. Protagonista la voce profonda di Castelluccio, attore e cantante: guittonico nella forza narrativa dell’interpretazione, a tratti altamente poetico, ma mai eccessivo. Mentre fisarmonica, pianoforte e chitarra dipingono con perizia i diversi colori del repertorio “deandreiano”, in un dialogo fecondo tra antico e moderno, classico e popolare.

Un itinerario circolare tracciato a pennellate, che dalle prime composizioni musicali dell’autore si è spinto fino al punto più alto del suo repertorio, per poi tornare alle origini, alla sua città, tra la sua gente.

Parte subito il “recitar cantando” di Castelluccio, che con “S’I fossi foco” dell’Angiolieri come incipit mette a nudo lo spirito dissacrante dell'”ultimo dei trovatori francesi”, trasfuso in “Carlo Martello” e dopo nella dolcissima e malinconica ballata inglese “Geordie”.

Arriva poi il Faber “cantautore degli ultimi e degli emarginati”, entrato nella memoria collettiva, de “Il pescatore” e “La ballata di Michè”. Come in una galleria di volti e atmosfere indimenticabili, i personaggi a cui De Andrè ha “ridato dignità senza svenevole compassione” si affacciano uno dopo l’atro, con la platea che segue cantando e battendo le mani: “La guerra di Piero”, “Un Giudice”, “Bocca di Rosa”, “Via del Campo, “Andrea” fino alla “Canzone di Marinella”, restituita nella sua forma originaria di poesia in musica.

Un percorso che sale alla natura più spirituale del cantautore di Pegli, con una poetica e suggestiva recitazione dei versi de “Le Nuvole”, raramente ascoltati in concerto, o sulle note colte dell’Ave Maria, dopo essersi tinto di accenti classici nello struggente “Valzer per un amore”.

Poi chiude il cerchio di nuovo la discesa tra le atmosfmere mediterranee più note di Faber:” La città vecchia”, la Sua Genova, splendido affresco di una decadenza allo stesso tempo romantica e grottesca. E un ultimo grido di rabbia e di speranza lanciato contro l’ipocrisia della società borghese benpensante lascia il segno: quello racchiuso in “Non voglio morir cantante”, poesia scritta ventant’anni fa da Stefano Benni appena dopo la morte di Fabrizio.

“Uno che scrive canzoni guardandosi intorno e guardandosi dentro”- così si definiva Fabrizio de Andrè. Non “fabbricatore di sogni”, ma “narratore di realtà”. Uno sguardo profondamente umano e insieme disincantato il suo, ora più che mai urgente e necessario: se gli ultimi che lui cantava rischiano oggi di tornare invisibili; se l’altro fa sempre più paura; se rabbia e sfiducia crescono senza argini; se si allargano le possibilità, ma aumenta la povertà della gente; se i modesti di ieri temono di diventare i dimenticati di oggi.

A vent’anni dalla morte, il cantautore genovese è attuale come e più che nel suo tempo. Facendo sentire vivo il suo respiro, Lorenzo Castelluccio e i suoi compagni d’arte ce l’hanno ricordato.

Micaela Ghisoni

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