Niente è come sembra, scoprirlo può essere fatale. Il nuovo libro di Bosonetto

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Lo scrittore piacentino Marco Bosonetto ci parla del suo ultimo libro: “Il bacio della Dea Montagna” edito da Piemme (2018).

Niente è come sembra, pare volerci dire Bosonetto in queste pagine, sebbene sia più facile credere alla genuinità di ciò che appare.

Elementi autobiografici, ironia e riflessione si fondono in un romanzo intriso d’attualità. Una scrittura limpida, ma ricercata, svela paradossi nascosti eppure molto comuni dell’essere umano, con l’arma vincente della leggerezza. Un pizzico di follia del protagonista non poteva certo mancare.

Partiamo dall’inizio: da dove nasce il titolo del libro?

Il titolo, quasi sempre, è una delle ultime decisioni che si prendono, insieme all’editore. In questo caso, la persona della casa editrice che mi ha seguito, Francesca Lang, ha insistito perché nel titolo ci fosse la parola montagna.

Una scelta dettata da ragioni commerciali, visto il successo recente di alcuni libri ambientati in montagna, come Le otto montagne di Paolo Cognetti, ma anche sensata, visto che il mio romanzo si svolge interamente in una valle alpina. L’espressione Il bacio della Dea Montagna compare nel romanzo stesso, in chiusura di un articolo del protagonista, uno scrittore, su un incidente alpinistico.

In realtà lui scrive L’ultimo bacio della Dea Montagna, ma lo stesso direttore del giornale comincia subito a citarlo come Il bacio, senza l’ultimo, che suona un po’ triste. È un particolare importante nel libro, perché il protagonista scambia un callo sul collo della vittima dell’incidente, una violinista, per il segno di un bacio appassionato.

A chi legge sembra un’immagine molto poetica, ma è falsa. Lo scrittore tenta anche di correggerla, quando gli viene spiegato che i violinisti professionisti hanno sempre sul collo il segno lasciato dal violino, ma si sente dire dal direttore del giornale che perfino la morta sarebbe più contenta di essere ricordata per un bacio anziché per un callo.

Molte cose, nel libro, hanno a che fare quella che gli Oxford Dictionaries hanno definito la parola dell’anno nel 2016, post-verità: preferiamo credere alle cose che ci sembrano emotivamente più vicine alle nostre idee, ignorando i fatti pur di non essere costretti a rivedere le nostre opinioni.

Il protagonista è uno scrittore che va in vacanza in montagna con la famiglia; tu scrittore nato a Cuneo e amante della montagna. C’è qualcosa di autobiografico in questa storia?

Il libro racconta circa due settimane di un’estate trascorsa da Luca Rollin e dalla sua famiglia in vacanza in Val d’Aosta, in un paesino a millesettecento metri di altitudine. Anche se ho usato toponimi diversi, il paesino e la casa esistono.

I miei genitori comprarono un terreno a Gimillan, una frazione di Cogne, nei primi anni Settanta, dopo avere osservato tante volte dal campeggio dove montavano la tenda in fondovalle che quello era il posto più assolato della valle. Però non avevano i soldi per costruirci una casa.

Così per qualche anno il terreno rimase così com’era. Poi un impresario locale offrì loro una permuta: loro gli cedettero il terreno, dove fu costruito una mini-condominio di sette appartamenti, e loro ebbero in cambio l’appartamento che preferivano.

Era il 1977, e da allora non credo sia trascorso anno senza che passassi lassù una parte delle mie estati, prima con i miei genitori, e ora, da genitore, con mio figlio e mia moglie. Camminare in montagna è tra le cose che mi fanno stare meglio in assoluto.

Però l’alta montagna è anche un luogo severo, potenzialmente pericoloso, che costringe a tenere presenti i propri limiti, che non perdona la presunzione. Perciò mi sembrava il luogo adatto per la vicenda di Luca Rollin, che ha molto a che vedere con la presunzione e il successo immeritato.

Mi sembra di ricordare si tratti di un libro che svela luci e ombre della natura umana, non sempre evidenti. Luca è scrittore conosciuto e celebrato agli occhi del mondo, ma estremamente insicuro nel suo privato: in quali modi trova declinazione nel testo questa fondamentale dicotomia?

Luca è uno scrittore che ha finalmente raggiunto il successo. Il suo ultimo libro sta vendendo decine di migliaia di copie. Poi sua moglie gli svela di non averlo letto fino in fondo, in maniera molto innocente, tenera. Luca all’inizio sembra non soffrirne affatto.

Invece da quel momento scatta un’ossessione: Luca si convince che in realtà, nonostante la montagna di copie vendute, nessuno abbia letto il suo libro da cima a fondo. E le sue indagini con il personale della casa editrice, con una giornalista che lo intervista per un rotocalco femminile, con un ex parlamentare vicino di casa, confermano i suoi sospetti.

Luca da quel momento non è più lo stesso, comincia una sorta di discesa agli inferi che nemmeno il paesaggio paradisiaco che lo circonda sembra poter frenare.

Il bacio della montagna di Marco Bosonetto

Luci e ombre anche nella natura? Con “Le otto montagne” di Paolo Cognetti il paesaggio e le sue bellezze tornano a conquistare la scena. Com’è invece la”tua”montagna“?

La montagna che descrivo io è sia quella selvaggia delle alte quote, dove si arriva solo a costo di sudore e fatica, e che regala a Luca qualche momento di serenità e di distacco dall’ossessione di sapere se qualcuno abbia letto davvero il suo libro, sia quella turistica del fondovalle, dello struscio in scarponcini e zaini di marca.

Esistono entrambe, mi sembrava giusto descriverle entrambe. Purtroppo c’è anche la montagna del turismo macabro, appena accennata, quella di chi saliva apposta a Cogne per farsi le foto davanti alla villetta di un infanticidio biecamente sfruttato dai mass media, Bruno Vespa in testa, nel 2002.

Un caso che purtroppo ha fatto scuola, nel senso che il voyeurismo del dolore è diventato una specie di costante della televisione italiana.

Altro personaggio centrale, il figlio di Luca, Francesco; un adolescente in subbuglio. Dal rapporto conflittuale genitori-figli, possono trarre lezione anche gli adulti? In che modo secondo te?

La lezione più importante che Luca potrebbe trarre è che bisogna dedicare tempo ai figli. Francesco ha quindici anni e sembra respingere ogni tentativo del padre di comunicare con lui, anche perché è convinto che sia un vigliacco, una persona che non si batte per dei principi.

Questo nel libro è simboleggiato dalla morte di un camoscio investito da un automobilista, che fugge senza che Luca faccia nulla per fermarlo. Luca intuisce i rovelli interiori del figlio, ma anziché fermarsi ad ascoltarlo, magari sopportando anche le sue argomentazioni un po’ irrazionali, è troppo preso dai suoi rovelli legati alla sua carriera letteraria.

Così i due, anziché incontrarsi e aiutarsi, si distanziano sempre di più, ognuno preso dalla sua ossessione.

Un tema a te molto caro è la smartphone-dipendenza:centrale anche in questa vicenda? Forse la tua professione di insegnante ti fornisce un occhio più attento a riguardo?

Luca Rolin è scrittore smartphone-dipendente, sempre connesso a controllare il successo riscosso dai suoi libri, che per lui diventa ossessione.

Recentemente ho commissionato una ricerca a un gruppo di studenti, per verificare una loro affermazione secondo cui gli adulti accusano i ragazzi di abusare della tecnologia, in special modo degli smartphone, ma poi sono i primi a esserne dipendenti.

Mi hanno portato dei dati allarmanti e una serie di fotografie illuminanti: genitori con lo smartphone in mano a tavola eppure sempre pronti a stigmatizzare lo stesso comportamento nei figli. Dobbiamo lavorarci ancora, sarebbe bello farne qualcosa da mostrare alle famiglie.

Molti adulti predicano bene e razzolano malissimo. Per esempio mandano messaggi ai figli in orario scolastico, come se fosse ovvio essere perennemente connessi.

Tutti temi attuali quelli affrontati in questo romanzo: si possono affrontare questioni di spessore senza rinunciare alla leggerezza?

Assolutamente sì. Mi piacerebbe che fosse considerato un po’ il mio marchio di fabbrica: ironia e profondità allo stesso tempo. Ma ovviamente tocca al lettore giudicare se raggiungo l’obiettivo oppure no.

Quali sono i tuoi autori di riferimento, che hanno influenzato in particolare questo libro?

Pensando alla compresenza di ironia e profondità certamente Kurt Vonnegut, un autore statunitense morto nel 2007, il cui libro più famoso è Mattatoio numero 5.

Per Il bacio della Dea Montagna in particolare, vista l’attenzione alle dinamiche famigliari, credo mi abbia aiutato molto leggere alcuni libri di Jonathan Coe, un autore inglese di cui è appena uscito il terzo episodio di una specie di trilogia, La banda dei brocchi, Il circolo chiuso e ora Middle England.

Poi sono un amante dei grandi scrittori russi come Dostoevskij, Tolstoj e Bulgakov, ma parliamo di mostri sacri a cui sarebbe presuntuoso paragonarsi. Una certa vena di follia che si manifesta in Luca Rollin, però, credo venga anche da lì.

Micaela Ghisoni

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