“La Resistenza non ha vinto la guerra, ha salvato la Patria” Intervista a D’Amo

Si avvicina la data del 25 aprile. Con questa serie di interviste vogliamo dare un contributo alla riflessione storica e politica sull’anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Meno retorica possibile (per favore quest’anno risparmiateci formule insulse come la ‘festa del perdono’) e più riscoperta dei valori fondanti di una celebrazione, che altrimenti rischia di ridursi a un rito stanco e svuotato di senso.

Il nostro secondo intervistato è Gianni D’Amo, professore e anima dell’associazione “CittàComune”. (m.f.)

Gianni, la prima domanda è molto diretta, perchè in Italia manca una storia condivisa della Liberazione?

Io direi che sul 25 aprile e la Liberazione nel nostro paese più che una storia, manca una memoria condivisa. Perché la storiografia il suo lavoro lo ha fatto. Voglio fare un esempio per far comprendere il tema.

Mi trovavo a Parigi nell’agosto del 2004, il 60esimo anniversario della liberazione della capitale francese che avvenne nell’estate del ’44, e tutti i quotidiani parigini, da Le Figaro a Liberation, uscirono più o meno con lo stesso titolo, ovvero ‘Parigi insorge’ o ‘Parigi liberata’.

All’interno del Jardin du Luxembourg era stata allestita una mostra interminabile sulla Resistenza francese, con rappresentati i comunisti, i gollisti, tutti quelli che concorsero al ritorno della libertà.

C’erano pure i coloniali, gli algerini e i marocchini che come è noto si schierarono con gli Alleati. Ricordo che il sindaco di allora era un esponente di centrodestra, Jean Tiberi. Quella celebrazione dimostra che cosa sia una memoria condivisa, che in Francia c’è. In Italia non è così.

Perchè non è così?

Non è così perchè l’Italia ha avuto il più rilevante partito comunista occidentale del dopoguerra, e perchè sull’anticomunismo italiano si è vissuto di rendita per tanti anni, forse ancora fino ad oggi, ma certamente in tutta la fase del berlusconismo. Questi due fattori hanno contribuito a fare della Resistenza un movimento etichettato come ‘comunista’. Che però non è vero.

Torniamo in Francia: De Gaulle e Camus – per schematizzare – sono ben diversi politicamente, eppure c’è un senso comune diffuso e acquisito della Liberazione. Prendiamo ad esempio le posizioni del famoso filosofo e sociologo Raymond Aron, che non era certo comunista, eppure diceva dei comunisti: ‘Ils sont le parti des fusillés‘. Aron sosteneva: “Io sono un liberale, ma attenti a parlare male dei comunisti perchè loro nella lotta di liberazione sono il partito dei fucilati”.

In Italia questa memoria non siamo riusciti a costruirla. Anche perchè nell’immediato dopoguerra la caccia più in voga non era al fascista, ma era all’ex partigiano. Se definiamo il clima nel nostro paese negli anni ’50 come ‘clericofascista‘ non siamo molto lontani dalla realtà. Era molto più facile andare in galera per aver fatto il partigiano, piuttosto che per aver partecipato alle porcate fatte dall’altra parte.

In quel contesto almeno fino al 1960, e cioè al Governo Tambroni, la palma della Resistenza è rimasta in mano al Pci fondamentalmente per una ragione: perchè gli altri non la volevano. Questa è la realtà. Basti pensare che ci furono docenti licenziati dalle università perché non avevano giurato lealtà al fascismo, che insegnavano materie religiose, a Concordato vigente, che non ritornarono sulle loro cattedre dopo la fine del conflitto.

Negli ultimi anni ’40 e primi ’50 in Italia si parlava di foibe e non di Shoah. Anche perché la ferita di Trieste era ancora una questione aperta. Tanto per capirci la casa editrice Einaudi nel ’47 non pubblicò Primo Levi con “Se questo è un uomo”.

E quindi componenti che erano state essenziali per la Resistenza, come i cattolici, gli azionisti, i militari, non rivendicarono il loro ruolo nella lotta di Liberazione. Dobbiamo inoltre ricordare che il tentativo di rinnovare lo Stato e le sue istituzioni dopo il fascismo fallisce fin da subito. Nel ’62 su 900 tra prefetti, questori e vice solo una decina non avevano iniziato la loro carriera col regime, c’è allora un problema di discontinuità mancata.

Qual è il ruolo dei comunisti nella lotta di Liberazione?

Oggi non si tratta di ridimensionare il ruolo dei comunisti e delle sinistre nella Resistenza, ma di comprendere che la Liberazione è stata un grande fatto nazionale dentro la storia d’Italia. Guardiamo Piacenza, prendiamo tutti i comandanti nelle nostre valli: non abbiamo nessun capo comunista.

Un altro punto sul quale insisto è questo: c’è la convinzione che il Pci abbia fatto la Resistenza, ma non è meno vero che è stata la Resistenza a fare il Pci. Nei 20 anni del fascismo il Pci è un partito all’indice formato da cospiratori. Nel ’43 aveva duemila iscritti, ma nel ’48 sono diventati 2 milioni.

Questo significa che la Resistenza ha fatto il Pci come partito di massa perchè è stato capace di accogliere una nuova generazione di giovani, che si è avvicinata alla politica in quei 20 mesi di lotta.

Una ricostruzione che invece non fa bene alla Resistenza è una sua analisi di tipo prettamente militare. Io penso che le sue connotazioni più importanti siano invece quelle di popolare e morale.

E’ vero che ci hanno liberato gli americani, non certo i partigiani. Ma altrettanto evidente che la Resistenza poteva soltanto praticare una lotta di guerriglia e non certo sfidare l’esercito tedesco in campo aperto.

Torniamo ancora alla Francia, lo sbarco in Normandia non lo hanno certo fatto i partigiani, lo hanno fatto gli angloamericani. Ed è stata una pagina molto importante, per il valore del loro sacrificio per la libertà.

La differenza con l’Italia è che gli Alleati in marcia, quando arrivarono a 20 chilometri da Parigi, chiamarono De Gaulle per concedere la possibilità di guidare la colonna. Questo però non significa che la Francia sia stata liberata dai francesi.

Va anche ricordato che l’unico posto in Europa che si è liberato da solo, senza l’intervento né degli angloamericani, né degli Alleati è la Jugoslavia. E non è un caso che quel paese restò fuori dalla Nato e dal Patto di Varsavia.

Gianni D'Amo a Monticello

Che cosa rende peculiare l’esperienza della Resistenza italiana?

Nella nostra Resistenza conta che circa 300mila persone rischiarono la vita per alzare la mano e affermare che l’Italia non è soltanto Mussolini. E tra queste vi furono anche le truppe del governo Badoglio che parteciparono alle azioni militari angloamericani.

A questo dobbiamo aggiungere che i partigiani, negli ultimi 20 mesi, non sarebbero mai sopravvissuti nell’Italia settentrionale, se intorno a loro non avessero avuto il sostegno diffuso e discreto dei contadini e della popolazione. Proprio quei contadini che furono la base del consenso di massa del fascismo.

Aiutare i partigiani non era affatto comodo, ma spesso i contadini riconoscevano in quei giovani magari i loro figli dispersi sul fronte russo, che erano partiti pochi anni prima e non avevano più rivisto.

Lo raccontano grandi scrittori come Fenoglio, Meneghello, Calvino, ma anche altri. Per la prima volta si è instaurato un rapporto tra intellettuali e classi popolari unico sulla scena europea, per la prima volta uno studente di lettere o di filosofia si rese conto che c’erano dei contadini, degli operai e dei falegnami che ne sapevano più di lui.

E che mai si sarebbero salvati senza quella sapienza del territorio che era propria delle classi popolari.

Quando noi sosteniamo che la Resistenza era dalla parte giusta perchè era dalla parte della democrazia e della libertà, non dobbiamo dimenticare che questo si chiarì soltanto dopo, a guerra conclusa.

Gianni, ti fermo un secondo. Tra i valori legati alla Resistenza, io trovo che non sia stato detto abbastanza che c’è anche quello di “Patria”, oltre a libertà e democrazia… 

E’ vero quei giovani riscoprirono il valore della Patria, venivano da 20 anni di educazione in cui la patria era più o meno ridotta a questo: le baionette e l’impero.

Cosa è una patria se non una lingua comune, una terra comune? Se leggiamo le ‘Lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana‘, notiamo che solo una manciata finiscono con W Stalin, mentre la stragrande maggioranza finiscono con W la Patria o Muoio per la Patria.

La patria allora era il tuo posto, il tuo prete, il tuo campanile, i tuoi parenti… Assistiamo a una riscoperta della patria come comunità. Sempre nelle Lettere dei condannati, ricorre spesso un elenco commovente di persone dalle quali congedarsi: salutami il prete, salutami il falegname, dì alla Luigina che l’ho sempre amata…

Si può pronunciare di nuovo la parola Patria, ed è una parola che ha lo stesso significato sia per contadini che per i proprietari terrieri.

Il termine di paragone di questo movimento non può che essere il nostro Risorgimento: ma allora le classi popolari furono assenti nel processo di unificazione del paese, mentre nella Resistenza ci furono in modo militante nella lotta, ma soprattutto intorno.

La moralità della Resistenza è poi nei comportamenti: a Cefalonia i militari italiani come la scoprono la patria? Facendo un referendum se consegnarsi o no. E decisero per il no. La scelta di stare dalla parte dei ribelli fu compiuta da tanti in condizioni di estrema precarietà, ed era una scelta che andava confermata ogni giorno. Una scelta che si rivelerà molto dura, soprattutto nell’ultimo inverno del ’44.

Festa della liberazione

A prescindere dalla parte politica che rappresenta, cosa dovrebbe dire nel suo discorso un amministratore pubblico il 25 aprile?

Un amministratore pubblico deve possedere una cultura del proprio paese, il che significa decidere quali siano le pagine di cui menare vanto e quali di cui vergognarsi. La Resistenza è una pagina molto alta della nostra storia.

Certo, Mussolini aveva fatto anche delle cose buone, i treni arrivavano in orario. Ma il problema è un altro: che non c’era la democrazia, che poi arrivarono le leggi razziali, che il regime fu una lunga e incessante preparazione all’entrata in guerra. Che poi infatti ci fu. Diamo allora un giudizio complessivo sul periodo storico del fascismo.

Sul versante della Resistenza, dobbiamo ricordare che ci sono voluti 40 anni di ricerca storiografica seria perchè a sinistra potesse uscire un libro intitolato “Una guerra civile“.

E cioè che ammettesse che la lotta di liberazione nazionale, che lo scontro con gli invasori tedeschi, fu anche uno scontro tra italiani e tra classi sociali sociali diverse. Quel libro lo scrisse Claudio Pavone ed uscì all’inizio degli anni ’90: il titolo magnifico è ‘Una guerra civile’, ma il sottotitolo altrettanto magnifico è ‘Saggio sulla moralità della Resistenza’.

I partigiani avevano ragione perchè erano dalla parte giusta e perchè si comportavano bene. Con una moralità.

Sulla differenza tra l’ethos nazifascista e quello della Resistenza potremmo soffermarci con tanti esempi. Per tanti giovani che presero la strada della montagna ci fu una rieducazione concentrata in 20 mesi che ha lasciato anche in seguito una traccia importante nella società. Molti scelsero la ribellione anche contro se stessi, perchè magari ci avevano creduto nel fascismo e quindi rinnegarono una parte della propria vita.

In quella esperienza si sono rotti schemi di autorità e di gerarchia, come ad esempio il maschilismo. E’ uno degli aspetti meno noti, le conseguenze sul costume delle donne e della loro presenza attiva nella lotta. Durante la Resistenza si verificò per la prima volta questa circostanza, che una donna potesse dormire fuori di casa senza essere qualificata più o meno come una prostituta.

Ve la immaginate una donna che sta fuori casa e dorme sotto una tenda nell’Italia degli anni ’40? E naturalmente c’era un codice di comportamento che imponeva: ‘non si toccano le donne della brigata’, perchè altrimenti non si viene perdonati.

C’è molta attenzione su questo aspetto di disciplina. E allora la Resistenza imprime un cambiamento anche nei rapporti familiari e sentimentali.

Antifascismo e Resistenza non sono la stessa cosa?

Io penso che l’antifascismo sia qualcosa che guarda più al passato mentre la Resistenza è proiettata al futuro. Voglio leggere un piccolo brano di un poeta Giacomo Noventa che dice così:

“Mentre gli antifascisti storici hanno combattuto sì contro il fascismo, ma contro il fascismo come qualcosa di estraneo da loro, gli uomini della Resistenza hanno combattuto prima ancora che contro il fascismo contro se stessi. Avevano dovuto mettere un segno interrogativo o negativo a tutto ciò che avevano pensato essi stessi, rompere gli schemi, sconvolgere le proprie abitudini di ragazzi e di uomini, i propri rapporti familiari, sentimentali, in una parola tutto il proprio pensiero e la propria vita…”.

Dobbiamo decidere cosa salvare della storia d’Italia. La Resistenza è una delle pagine più alte della nostra storia perchè ci ha consegnato il diritto di scriverci da soli la nostra Costituzione, mentre gli altri paesi dell’Asse, Germania e Giappone, si ritrovano la Costituzione scritta dai vincitori.

Non si può neppure immaginare tutta le letteratura italiana del Dopoguerra senza la Resistenza. Come scrive Calvino nel ’64: ciascuno torna ai suoi luoghi, alla sua terra per trarre ispirazione. I grandi scrittori italiani di quella stagione sono scrittori che appartengono alla loro terra.

E allora io dico: leggete “Una questione privata” di Fenoglio e sappiate che Fenoglio al referendum del ’46 tra la Monarchia e Repubblica scelse la prima, e sappiate che si può essere un po’ sabaudi e monarchici, e al contempo antifascisti.

Leggete Meneghello, oppure Calvino del “Sentiero dei nidi di ragno” che racconta una Resistenza tutta di “storti”, quella di un bambino, di una puttana, di un matto…

Perchè anche il più storto degli storti nel suo ribellarsi a 20 anni aveva più dignità politica di tutti gli altri che non lo fecero.

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