Cortometraggi “di frontiera” al Politeama: racconti di verità di un cinema necessario

Una serata al Politeama di Piacenza per raccontare la realtà, una realtà scomoda che spesso non si conosce bene, o non si vuole vedere.

Ma soprattutto una serata all’insegna della “pietas umana”, che non è pietismo, ma, al contrario, sentimento di profonda empatia verso le tragedie vissute dagli altri e le loro emozioni, che non permette di rimanere indifferenti a guardare.

Lo hanno sottolineato più volte i protagonisti dell’iniziativa, organizzata dalla Fondazione “Fare Cinema” presieduta da Marco Bellocchio e fortemente sostenuta dalla direttrice Paola Pedrazzini. Una serata di brevi, ma intense, proiezioni cinematografiche, unite dal fil rouge della “frontiera”- ben più di una in realtà – geografica, ma soprattutto mentale, che separa, destabilizza, sconvolge, ma può anche diventare punto d’unione ed essere positivamente superata.

“Frontiera potrebbe essere il titolo dell’intera iniziativa – sottolinea infatti Paola Pedrazzini presentando la serata -. Un progetto che risponde pienamente. alla duplice mission della Fondazione “Fare cinema”, con sede amministrativa a Piacenza e corsi a Bobbio, da me diretta: promuovere alta cultura e alta formazione cinematografica. In tal senso la Fondazione organizza numerose iniziative in diversi luoghi, tutti conoscerete il “Bobbio film festival”, ma a Piacenza è la prima volta”.

E non a caso è piacentino e figlio della scuola di formazione di “Fare cinema”, Simone Gattoni, produttore del cortometraggio protagonista della serata dal titolo “Frontiera”, girato nella Lampedusa dei migranti. Diretto dal giovane regista Alessandro Di Gregorio, il film è stato vincitore per la sua categoria del David di Donatello 2019.

“Il nostro concerto”, regia di Francesco Piras; “Im Bären”di Lilian Sassanelli; “Magical Alps” di Andrea Brusa e Marco Scotuzzi, “Yousef” di Mohamed Hossameldin, gli altri cortometraggi che hanno completato l’evento, sono stati candidati allo stesso premio.

Un film che scuote l’anima senza bisogno di parole pronunciate, “Frontiera” di Alessandro Di Gregorio. Un quarto d’ora di immagini è bastato per portarsi a casa un prestigioso premio, che permette la candidatura di preselezione agli Oscar. Un cortometraggio che al Poltiteama è stato arricchito dal dibattito finale tra il pubblico, il regista Di Gregorio e il produttore Gattoni, moderato e condotto con la preziosa partecipazione di Alberto Gromi, ex preside del liceo Gioia, che da sempre si adopera per la risoluzione di problematiche sociali.

La frontiera racconta da Di Gregorio è Lampedusa, terribile palcoscenico di morte, tragico accumulo di cose e persone senza vita a causa dell’immigrazione clandestina. La grandezza del film è però il particolare punto di vista con con cui tutto questo viene portato in scena: il dramma dell’immigrazione, pur chiaramente documentato e percepito, rimane sullo sfondo, veicolato dal rapporto di amicizia che inaspettatamente si instaura tra i due protagonisti. Due giovani sconosciuti accomunati dallo stesso destino nel loro viaggio all’inferno e ritorno.

Uno è un necroforo, svogliato e indifferente al suo primo giorno di esperienza, l’altro un sommozzatore che per la prima volta si immerge nelle acque del Mediterraneo per recuperare dal mare i corpi dei poveri sventurati che ne sono stati risucchiati. Sarà quando arriveranno a Lampedusa che le loro vite cambieranno per sempre: uno dovrà riportate a terra corpi senza vita, l’altro li dovrà seppellire, in una sorta di tragico percorso circolare.

Come circolari sono le sensazioni vissute dai protagonisti, che il regista ci fa vivere per immagini e suoni, senza parole: il necroforo all’inizio assente, disinteressato e inconsapevole, sarà il più scosso da quell’esperienza. Se le immagini di repertorio finali riferite al naufragio dell’ottobre 2013 documentano potentemente la realtà, i rumori di fondo, ambientali, ma soprattutto interni ai personaggi, la amplificano, rendendola anche più vera.

“Di migranti si parla anche troppo e spesso a sproposito – ha detto il regista alla fine -, io volevo raccontare ciò che le persone vivono, anche da vittime indirette di una tragedia assistita e subita. E spesso il silenzio, le immagini, i suoni, in questo sono molto più potenti di tanti discorsi retorici”.

Una frontiera duplice, in questo film: quella geografica di Lampedusa e quella simbolica della crescita dei due protagonisti. La perdita amara della loro innocenza, ma anche il ritorno da un viaggio infernale e la nascita della loro amicizia in un balletto vissuto tra la vita e la morte.

Micaela Ghisoni

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