Polanski e Dreyfus, Venezia applaude il film del maestro foto

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Applauditissimo e in cima ai giudizi dei film proiettati finora, il “J’accuse” di Roman Polanski (le parole della presidente di giuria Lucrecia Martel non sono estranee al senso del film – Riassumiamole: non lo applaudirò per via dello stupro di cui è stato accusato, ha detto la regista argentina) è ancor più interessante se alla storia raccontata con una ricostruzione classica e accurata dell’affaire Dreyfus si accosta la storia del regista.

Lo scandalo che scosse la Francia alla fine dell’800, ovvero il processo sommario ad un ufficiale dell’esercito accusato di tradimento, è lo scandalo dei diritti negati, lo stigma con cui il potere e l’opinione pubblica marchiano le persone, l’inizio di una persecuzione nei confronti del popolo ebraico che qualche decennio dopo sfocerà nel collaborazionismo translapino. Il film è curato nella sua messa in scena tradizionale, gli attori e l’attrice Dujardin, Garrel e Seigner assolutamente funzionali, ma il dubbio che sorge parte proprio dal titolo: il j’accuse con cui Emile Zola fa scoppiare lo scandalo attraverso un articolo che appoggia la tesi dell’innocenza di Dreyfus è quello con cui Polanski stesso pare difendersi e accusare. L’86enne regista ci vuole mettere in guardia sui rischi di processi ingiusti e sommari, fatti di pregiudizi e di colpe già assegnate. Vi ricorda qualcosa?

La famiglia più disfunzionale che si possa immaginare, un melodramma musicale con una recitazione intensa e tesa anche per il fatto che il regista forniva il copione agli attori solo il giorno prima, scena per scena. Si tratta di “Ema”, film di Pablo Larraìn in concorso e con (a giudizio personale) bune possibilità di premio, il racconto di Ema, ballerina/insegnate (la splendida e bravissima Mariana Di Girolamo), e del suo compagno coreografo (Gabriel Garcia Bernal): dopo avere adottato un bambino di sei anni, la coppia di artisti decide di riportarlo indietro a causa delle sue azioni pericolose e violente, entrando così in crisi. È infatti la crisi “d’identità” della famiglia quella che il regista cileno racconta con immagini e sequenze bellissime, con balli vorticosi a suon di reggaeton per le strade e i tetti di una metropoli illuminata e infuocata, con relazioni multiple, etero e omosessuali. Larraìn pone la questione su cosa sia oggi una famiglia, dalla sua dissoluzione ad una ricomposizione forse impossibile ricca di quelle emozioni che Ema vive sulla propria bianchissima pelle come stille di fuoco.

Ultimo ma non ultimo, applauditissimo e certo difficilmente collocabile all’interno degli imperanti cinecomic, il “Joker” di Todd Phillips (sì, proprio il regista di “Una notte da leoni”) non è certo una origin story classica né un film d’azione, come da “avengeriana” e ormai consolidata prassi: la nemesi di Batman (il pipistrellone non appare, togliamoci subito il pensiero, essendo Bruce Wayne ancora bambino quando la storia si svolge) vive della splendida recitazione di un quasi scheletrico e deforme Joaquin Phoenix, pienamente calato in una storia di violenza e di abusi, di follia e di emarginazione, nel progressivo scivolamento verso quel nichilismo che il Joker incarna soprattutto ne “Il cavaliere oscuro” di Nolan. La storia che Phillips ha inventato non pesca dai fumetti se non, in parte, dal Killing Joke di Moore e Bolland. È un nuovo background quello che gli viene fornito, una caratterizzazione quasi realistica che riporta l’icona sulla terra, cattivissima, certo, ma anche molto umana e colma di fascino.

Stefano Cacciani

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