Domenico Quirico ospite alla Biffi Arte “Solo chi vive la tragedia della guerra può raccontarla”

Ritorna la rassegna “L’arte di scrivere”, presso la galleria Biffi Arte di Piacenza (Via Chiapponi 39). Tra gli ospiti diversi autori e giornalisti, la cui rilevanza spesso supera i confini nazionali.

Giovedì 14 novembre, alle ore 18, sarà un appuntamento da non perdere quello con Domenico Quirico, tra i più importanti inviati di guerra in Italia e nel mondo. In colloquio con Mauro Molinaroli, promotore dell’iniziativa, il giornalista presenterà il suo ultimo libro: “Che cos’è la guerra. Il racconto di chi l’ha vissuta in prima persona” (Salani Editore).

Un reportage lucido, duro, profondamente umano di otto anni di guerre, violenze, giovani alla deriva radicalizzati all’estremismo islamico, migrazioni. Storie di umanità ai margini. Dalle primavere arabe alla Siria, Quirico vive la guerra sulla propria pelle. E poi arriva a Lampedusa, su un barcone di migranti. A noi, all’ombra rassicurante del nostro angolo di mondo in pace, ricorda che “la guerra ci circonda, ci assedia, ci soffoca, l’uomo, la donna, il bambino del terzo millennio ne sentono perennemente l’odore e il suono”. È “il mondo del Non Diritto, dove chi ha il potere, o pretende di parlare in nome di Dio, può arrestare, vietare, sequestrare, uccidere senza che nessuna Legge venga a chiedergliene conto”.

E l’Occidente, che del diritto dovrebbe essere garante, con la sua indifferenza e incapacità, commette un “peccato mortale”: finisce per diventare la patria del “Diritto Negato”. Ma se un cambiamento è possibile, non può che nascere dall’impegno di tutti e di ciascuno a conservare la propria umanità. Di questi temi abbiamo parlato con l’autore.

Partiamo dal giornalismo: per lei, inviato di guerra, è sempre narrazione di fatti vissuti in prima persona. Come avviene – o dovrebbe verificarsi – il passaggio da esperienza personale a coscienza collettiva?

Attraverso la presenza fisica accanto agli uomini e nei luoghi in cui i fatti si verificano. Solo così è legittimo narrare la tragedia degli uomini. Non esiste un giornalismo a distanza, o una narrazione costruita sul racconto di altri, anche se sono vittime o testimoni. Solo vivere insieme i fatti consente di raccontarli.

Dalle primavere arabe alla Siria, il suo libro è poetico, inscindibile intreccio di dolore e di vita. Nei suoi viaggi le immagini pesano anche più delle parole?

Il viaggiare è attraversare luoghi e accompagnare uomini. Non credo sia possibile farlo se non attraverso le immagini, di cui le parole sono strumento. Lei parla di poesia, ma bisogna intendersi sui termini: la narrazione giornalistica non è letteratura, estetismo, forma. E’ sempre realtà narrata e vissuta, testimonianza.

Il territorio siriano è una polveriera, quella che lei definisce “una guerra eterna”. Sempre nuovi attori subentrano e nessuno sembra in grado di fermala. Prova a ricostruire per accenni questo “caos”, senza tralasciare “la grande ipocrisia” dell’Occidente?”

Si tratta di un caos tragicamente semplice. Nel 2011 è scoppiata una rivoluzione per abbattere il regime pluridecennale della famiglia Assad, rivoluzione di giovani e di società civile. Bashar non è fuggito come altri dittatori arabi: la rivoluzione, militarmente debole e isolata, è diventata guerra civile. L’islam radicale ha quindi trovato un luogo perfetto per lanciare il suo progetto di costruire uno stato totalitario basato sulla fede: da qui il Califfato, che ha nel caos la sua arma migliore, ed è riuscito a trascinare nel gorgo sempre nuovi attori. Dall’Europa all’America (ex potenza imperiale, ormai fuori gioco in quest’area); dalla Russia alla Turchia, ora dominanti. Per non parlare di Arabia Saudita e Israele, da sempre attori di primo piano in Medio Oriente. Di certo le democrazie occidentali, con le loro lezioni di civiltà, badano molto bene ai propri interessi. Mentre a parole, più che nei fatti, aiutano le popolazioni stremate da una guerra senza fine.

Lei prigioniero, prima a Tripoli, poi in Siria, e non solo. Cosa le ha lasciato questa esperienza, sospesa tra la vita e la morte?

Nessun incubo. Semmai la possibilità straordinaria di osservare un fenomeno storico come la rivoluzione islamica dall’interno, nel suo divenire.

Di stretta attualità, la mobilitazione pubblica contro Erdogan a favore dei curdi. Non le pare le si contrapponga un silenzio assordante nei confronti dei civili siriani? Come mai secondo lei?

I curdi, o meglio una parte dei curdi in occidente, sono la proiezione del sogno occidentale di realizzazione di un paradiso comunista ed egualitario; l’ennesima incarnazione del mito occidentale del buon selvaggio. Questo non valeva, evidentemente, per i siriani.

Dalle sue pagine emerge una lucida analisi dell’estremismo islamico, niente affatto sconfitto: quali sono i possibili sviluppi futuri secondo lei?

La moltiplicazione del modello del Califfato in altri luoghi del mondo islamico: Sahel, Somalia Libia, Afghanistan.

Per chi vi aderisce, il fanatismo islamico sembra colmare un vuoto, rappresentare uno scopo di vita ritrovato. In questo senso, non si può rintracciare una qualche, vaga, analogia con il cospicuo aumento di razzismo e intolleranza cui assistiamo ultimamente in Occidente?

Non direi. L’islam radicale è il sogno – sanguinario – di creare il regno di dio nella Storia e non in un futuro Paradiso. Il razzismo occidentale è la riproposizione di un vecchio sordido egoismo, che scarica sull’Altro le proprie frustrazioni e fobie, povertà e insuccessi.

Si è imbarcato verso Lampedusa con i migranti, per un “viaggio della speranza”. Tante aspettative, molte colpevoli bugie? Come sono stati quei giorni?

Quel che resta è la constatazione del fallimento totale della narrazione onesta sui migranti. Le bugie dei razzisti hanno ottenuto pieno e redditizio successo. I migranti rendono con il denaro che pagano per il viaggio dall’inizio fino all’occidente, con il lavoro coatto a cui sono costretti in luoghi come la Libia, con le cifre che vengano pagate dall’Europa e dagli stati nei centri di accoglienza, con le speculazioni mafiose che gravitano in molti casi su queste strutture; come sul reddito politico che i politicanti – i razzisti ma anche in qualche caso i ”buoni” e le sinistre – ricavano dal loro irrompere nella storia della nostra parte del mondo.

Quali soluzioni possibili? Salvare in mare è un dovere e un diritto che non si può certo negare. Ma demografia, crisi economica, promesse disattese possono essere ignorate?

L’unica soluzione possibile è la libertà assoluta di movimento per gli esseri umani, il riconoscimento di un nuovo popolo nella storia del terzo millennio e un intervento delle Nazioni Unite che assicuri loro un passaporto: per garantirne la possibilità di disperdersi ovunque, annullando l’impatto del numero. Soluzione già sperimentata con successo in Europa dopo la prima guerra mondiale; un mondo molto più fragile di quello di oggi.

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