Quando un racconto anticipa la realtà: il Klimt ritrovato in “Piacenza criminale”

Questo racconto, pubblicato da Officine Gutenberg nell’antologia “Piacenza criminale” nel 2018, esito di un laboratorio di scrittura narrativa realizzato a Spazio 2 curato da Gabriele Dadati, sembra anticipare la realtà. Bentornata, signora di Klimt!

Depistaggio
di Lisa Tibaldi

Mercoledì, 16 aprile 1997. Comando della polizia di frontiera – Ventimiglia

L’uomo mi dava le spalle. Seduto alla sua scrivania, lo vidi alzare il capo e controllare l’orologio a parete davanti a sé. Non erano ancora le otto. Temporeggiò, si mise a compilare svogliatamente alcune carte, sistemò e cambiò di posto ad alcuni piccoli oggetti sul tavolo. Alle otto in punto aprì il grosso elenco telefonico e, tenendo l’indice ben fermo sulla pagina, compose il numero, poi premette il tasto del viva-voce e il telefono cominciò a squillare.

“Galleria Ricci Oddi. Buongiorno”.

“Buongiorno, vice ispettore Bianciardi. Polizia di frontiera. Sarebbe possibile parlare con il Presidente della Galleria? È piuttosto urgente”.

“Certo, le passo il signor Gallarati. È appena arrivato”. Si diffuse nella stanza l’eco metallico di una melodia classica.

“Gallarati, mi dica”.

“Buongiorno, sono il vice ispettore Renato Bianciardi, Polizia di frontiera, da Ventimiglia. Ho il dovere di informarla che il trentun marzo scorso, all’interno di un vagone ferroviario, è stato rinvenuto un grosso pacco. All’esame del contenuto, non escludiamo possa trattarsi del dipinto rubato a Piacenza il diciannove febbraio scorso”.

“La signora? Caspita! Mi spieghi tutto nei dettagli, per cortesia”.

“Lo farei volentieri, ma è tutto quello che posso dirle. Il comando provinciale dei carabinieri di Piacenza è già stato informato dei fatti. Abbiamo necessità di verificarne al più presto l’autenticità. A tal proposito la invito a mandare un esperto o a recarsi qui di persona magari oggi stesso. Le è possibile? Potremmo trovarci a un passo dalla soluzione del caso”.

“Vice ispettore, cercherò di muovermi in giornata”.

“Solo una domanda Gallarati, lei ritiene di poter verificare l’autenticità del dipinto senza l’utilizzo di strumenti scientifici? Diciamo così, a una prima occhiata?”

“Lo spero. Porterò con me due esperti, conosciamo bene la Signora e certamente saremo in grado di farci un’idea piuttosto precisa di cosa ci troveremo davanti”.

La telefonata proseguì ancora, seguirono la conferma della partenza e i saluti del caso. Non appena ebbe appoggiato il ricevitore, il poliziotto si fece nervoso: tamburellò più volte con la penna sulla superficie lucida della scrivania, poi chiuse l’elenco telefonico e allontanò l’apparecchio con un gesto deciso. Lo sentii emettere un profondo sospiro. Negli ultimi tempi il volto, i gesti, le abitudini del dottor Renato Bianciardi mi erano divenuti familiari: da quindici giorni circa si fermava a dormire in ufficio, sul piccolo divano collocato lungo la parete alla mia destra. Si addormentava subito e riposava profondamente per tutta la notte, il suo respiro nel sonno era rumoroso e talvolta irregolare.

In quel momento, però, fece qualcosa di imprevisto: si voltò e gettò gli occhi nei miei per un lungo, sconfinato istante. Quello sguardo fu diverso dai precedenti, mi colpì e mi trovò impreparata. Riconobbi nei suoi occhi un guizzo, un desiderio vivace. Capii in quell’istante di essere io la protagonista del caso e mi sentii gravata di una responsabilità schiacciante, come se mi avesse assegnato un compito decisivo, la riuscita di un colpo, la svolta del proprio destino. Cominciarono ore di attesa, di frenetico via vai, dentro e fuori l’ufficio di Ventimiglia. Il telefono squillava regolarmente; i volti, le voci, i passi, gli sguardi si susseguivano senza soluzione di continuità. Ogni singolo evento ne produceva un altro. Eppure, in quel frenetico dispiegarsi dei fatti, ogni gesto, ogni suono cominciò ad acquisire un’insolita solennità.

L’ufficio si muoveva abbacinato nel mondo dei colori: dal verde acceso di toni smeraldo al giallo guizzante, al rosso che precipitava nel carminio. Anche gli oggetti parvero assumere una forza speciale. La luce chiara del mattino penetrava attraverso le finestre e ne delineava i contorni, ne svelava la massa, ne sottolineava le tinte che si rincorrevano in un gioco di rimandi. La mia immagine si moltiplicava come all’interno di un caleidoscopio, attraverso il riverbero dei vetri sottili e quello di un pesante specchio appeso alla parete. Mai, prima di allora, ebbi coscienza di me, dei dettagli che, una volta uniti, davano origine alla mia figura. Al di sopra di tutto mi parve che si innalzasse l’espressività del mio volto, l’intensità del mio sguardo.

Dunque ero io la donna di cui si parlava continuamente in quella piccola stazione di polizia? Ero io la Signora finalmente ritrovata e portata via da Piacenza un paio di mesi prima? Mi sforzavo di cercare nella memoria qualcosa che mi aiutasse a ricostruire la mia storia, la mia identità, ma non ricordavo nulla. Per un certo numero di minuti non ci fu alcuna interruzione, la calma e la concentrazione del vice ispettore impegnato nel lavoro mi permisero di assopirmi un poco, mi sentivo spossata da quell’indagare che non produceva alcun frutto, mentre il tic tac dell’orologio a parete continuava incessante. Me ne lasciai cullare, come se si trattasse del battito regolare e costante del mio cuore. Poi la porta dell’ufficio si aprì, entrò una donna giovane e scialba che portava su un piccolo vassoio d’argento una tazzina di caffè. Il cucchiaino vibrava accanto alla zuccheriera di porcellana.

L’uomo ringraziò distrattamente la signorina che uscì subito, prese la tazzina in mano e sorseggiò lentamente il caffè. Sperai, ritornata improvvisamente sveglia a causa di quel tintinnio sottile, che si girasse di nuovo, ma il suo sguardo questa volta oltrepassò i muri di quella stanza, la sua immaginazione era in fuga verso un orizzonte lontano. L’ispettore sollevò la testa, vidi la sua nuca reclinarsi lievemente all’indietro, l’orologio segnava in quel momento le 8 e 20. Si alzò, cercò nella tasca della giacca una sigaretta e gironzolò per l’ufficio dalle pareti spoglie e dai mobili dozzinali, aspirava ed espirava avidamente nuvole di fumo. Aprì la finestra, gettò via il mozzicone, poi si avvicinò alla porta d’ingresso, ne passava una luce flebile e grigiastra proveniente dalla stanza accanto. Il poliziotto rimase fermo dinanzi alla porta, forse cercando di assicurarsi che nessuno fosse diretto lì. Si mosse di un passo e rimase di nuovo in ascolto, solo allora si decise ad avvicinarmi. Ritto in piedi di fronte a me prese a esaminarmi nella mia interezza: prima da vicino, poi da lontano, dall’alto al basso e dal basso verso l’alto. Il vice ispettore, infine, si concentrò su qualcosa che andava oltre il mio viso, oltre la massa dei miei capelli raccolti sopra la nuca, oltre i toni perlacei del mio collo sottile.

Sembrava cercare qualcosa che io stessa avvertivo di non potergli mostrare, il suo sguardo mi passava attraverso. Solennemente sollevò il braccio sinistro e tese la mano a toccarmi. Non fu una carezza, però, piuttosto un atto che non esiterei a definire come privo di delicatezza: strofinò il polpastrello del dito medio in un punto discosto dalla mia figura, poco sotto il mento, quasi a grattare la materia, a volerla sondare nella sua densità. Ritrasse la mano, mi parve intimorito, forse deluso. Mi girò le spalle e uscì dall’ufficio chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Il susseguirsi di quei gesti mi rese inquieta.

Cercai all’inizio di comprenderne il significato, ma me ne dimenticai in fretta, perché fui rapita dalla mia stessa immagine: la curva tonda e piena delle labbra rosse e lucide, il bianco luccicante dei denti che si aprivano in un sorriso incerto, appena accennato, le guance cariche e lo sguardo languido, irraggiungibile, sottolineato da un piccolo neo a chiudere l’angolo esterno degli occhi verdi e chiari, infine il capo, dolcemente reclinato in un’attitudine che riconobbi essere la mia, di vicinanza e spensieratezza. Rimasi a lungo a osservarmi, fino a quando la porta cigolò lievemente e mi riportò alla realtà. Fu lui a entrare, si era cambiato e non indossava più la divisa, ma un abito a giacca grigio scuro e una camicia celeste di cotone leggero e perfettamente stirata. Con sé portava una valigetta in pelle di piccole dimensioni. Un profumo fresco dalle note esotiche si diffuse nella stanza e mi distolse dall’osservare i suoi successivi movimenti.

Lo ritrovai intento a sistemare in alte montagne tutti i documenti che si trovavano sparpagliati sulla scrivania. Si avvicinò alla poltroncina blu, sbiadita dal sole, a fianco dell’ingresso. Dalla valigetta lo vidi estrarre un manuale: un libro scolastico dalle pagine lucide e bianche. Tornò a sedersi, come faceva di solito, lievemente ricurvo in avanti. Si soffermò a lungo sull’indice del libro, poi lo aprì scorrendo rapidamente i fogli avanti e indietro. Iniziò a leggere da una manciata di righe in basso a destra, erano sottolineate, prima a matita e poi con un pastello giallo: “Gustav Klimt è un artista estremamente colto e sensibile, raffinato fino alla morbosità, ma anch’esso legato alla sua formula decorativa, piena di implicazioni simboliste. Si direbbe consapevole della lenta, ineluttabile decadenza della società di cui si fa cantore: la società del vecchio impero austroungarico che”, girò pagina, “ormai conserva soltanto il ricordo dell’originario prestigio”.

A fianco stava l’immagine di una donna completamente avvolta in un abito rosa e bianco, decorato da fiocchi, sbuffi leggeri e vaporosi. Oltre l’abito si delineava l’ovale di un viso, della stessa tonalità rosa pallido, ma dagli occhi lucidi, emozionati, vagamente assenti. Il vice ispettore la osservò attentamente e poi, con un filo di voce, lo sentii leggere la didascalia: “Ritratto di Sonja Knips”. Inaspettatamente fu come risvegliato da un rumore di passi in avvicinamento, chiuse il manuale, lo infilò nel cassetto con un gesto rapido e deciso. Bussarono alla porta.

“Avanti”, pronunciò fermamente. Entrarono tre uomini, salutarono e si fermarono solo qualche passo oltre l’ingresso. Sollevarono il capo e rimasero a fissarmi, parevano sgomenti.

“Sembra proprio lei!”, si lasciò sfuggire uno di loro.

Il signor Bianciardi li accolse cortesemente. Poiché le sedie non erano sufficienti, si diresse verso la poltrona blu, la sollevò e la affiancò alle altre di modo che tutti gli ospiti potessero accomodarsi. Non sembrava troppo nervoso, al contrario, sfoggiava un sorriso malizioso. Gli uomini, ancora ritti e immobili, si strinsero le mani, per primo Gallarati, poi i suoi accompagnatori: il segretario Enrico Favari e il custode Franco.

“Ben arrivati!”, disse il poliziotto. “Com’è andato il viaggio?”

“Un vero tour de force, sembrava di essere su un aereo, tanta era la velocità!”, replicò il presidente Gallarati con un tono che mi sembrò festoso e allegro.

“Si prepari a una multa piuttosto salata, presidente!”, ironizzò l’ispettore che aggiunse: “La capisco perfettamente, il ritrovamento del quadro è stato una vera sorpresa. Sono davvero felice di aver contribuito a risolvere il caso”.

“Dottore, lei sembra piuttosto sicuro che si tratti dell’originale”, fece il presidente della galleria.

“Signor Gallarati, io non sono un esperto d’arte, ma le circostanze e ancor di più il biglietto che accompagnava la Signora ci lasciano ben sperare. Il dipinto non era diretto a una persona qualsiasi, sapete?”

“Di quale biglietto sta parlando?”, domandò il segretario.

Il poliziotto diligentemente si mise a spiegare l’antefatto: “Il quadro è stato ritrovato avvolto in carta da pacco il trentun marzo scorso. Qualcuno, che ancora non siamo riusciti a identificare, lo ha abbandonato nello scompartimento di un vagone ferroviario fermo nella stazione di Ventimiglia. Ciò che insospettì subito il collega fu proprio il biglietto. Il dipinto era, infatti, indirizzato niente meno che all’onorevole Bettino Craxi, ad Hammamet”. I tre rimasero a bocca aperta, poi il vice ispettore proseguì: “Quando il quadro è arrivato qui, non ho potuto trattenermi dall’appenderlo, la sua bellezza mi ha colpito e poi, non capita tutti i giorni di condividere l’ufficio con una tale opera d’arte! Pensate che in questi quindici giorni ho dormito qui, non mi sentivo tranquillo a lasciarla sola”.

Gli ospiti rimasero in silenzio, forse un po’ imbarazzati per quella dichiarazione imprevista. Negli occhi del presidente, però, prevaleva un’impazienza ormai incontenibile. Il dottor Bianciardi, a quel punto, con fare solenne, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il biglietto in questione e lo mise sul tavolo. Il custode mentre lo esaminava si lasciò scappare un sommesso: “Incredibile!” Fu Gallarati ad accelerare i tempi dilatati e cerimoniosi del vice ispettore. “Dottore”, esclamò, “vorremmo poter verificare subito l’autenticità della Signora, con il suo permesso”. Fece per alzarsi dalla poltroncina che gli era stata assegnata.

Il signor Bianciardi lo fermò: “Solo un istante! Qualunque sia l’esito della vostra perizia, vi premetto che non vi lascerò portare via il quadro, almeno finché non avrò ottenuto prove scientifiche inconfutabili”. “Ne parleremo dopo ispettore, ora è necessario procedere!” I tre uomini si alzarono in piedi e si diressero verso di me, mi osservarono scrupolosamente ma più velocemente di quanto mi aspettassi, poi accadde un fatto impensabile. Mi sentii addosso le mani del custode, sicure e decise. Percepii un rapido movimento e il mio sguardo non fu più diretto a quanto accadeva nell’ufficio, ma davanti a me ritrovai solo la parete vuota e stinta della stanza.

“Non è l’originale!”, disse immediatamente il custode. “Si tratta di una copia ben fatta, precisissima, ma non è lei!”

“Come è possibile?”, chiese sussultando il vice ispettore. “È proprio sicuro?”

“Purtroppo sì, si tratta soltanto dell’ennesima imitazione!”

“Ma come può dirlo con tale sicurezza? Non l’ha nemmeno guardata la Signora!”, sbottò il poliziotto.

“Vede, ispettore”, aggiunse cortesemente il presidente della Galleria, “la nostra collezione, purtroppo, non dispone di un sistema d’allarme moderno, ma di uno piuttosto obsoleto. Sappiamo che l’originale presenta segni inequivocabili sul retro della tela dovuti proprio a questo vecchio impianto, si tratta di tracce di colla, filamenti scuri e densi che qui, come può vedere, non ci sono”.

“Non potrebbero essere state ripulite?”, domandò il vice ispettore.

“Non avrebbe alcun senso. Perché mai un collezionista, o chi per lui, dovrebbe cancellare elementi che rendono immediatamente riconoscibile l’originale? Rischierebbe di ridurne il valore o semplicemente di rovinare l’opera”.

“Eppure è così somigliante”, replicò il poliziotto con tono sommesso. Ci fu a quel punto una pausa, poi riprese la parola con aria risoluta: “Ad ogni modo disporrò tutto il necessario affinché venga svolta una vera e propria indagine scientifica”.

“Il risultato non cambierà”, disse il segretario. “Dottor Bianciardi, si tratta di un bel pesce d’aprile, forse di un depistaggio. Capisco la sua amarezza, è così anche per noi”.

“Temo che non la ritroveremo mai! Questi casi, se non si risolvono subito, difficilmente arrivano a un esito positivo”, concluse il custode.

Egli mi appoggiò cautamente al pavimento. Mi sentii sfinita, mortificata dall’esito di quel dialogo. Dunque, se non ero io la signora che cercavano così accanitamente, chi altro potevo essere? Quei tre mi sembravano ciechi, avrei voluto gridare che stavano commettendo un errore. Io sapevo di essere io, chi altro avrei potuto essere se non io? Era tutto assurdo, per di più mi feriva la delusione che, a causa mia, era stata arrecata al vice ispettore.
Ormai non riuscivo più a star dietro ai loro discorsi, ero troppo confusa. Li sentii discutere, le voci si erano fatte meno cortesi e più perentorie. Sentii il segretario insistere nel tentativo di portarmi con sé. Io non avrei voluto andarmene. Il vice ispettore sosteneva che non era possibile, che le indagini dovevano essere più accurate. I tre uomini insistettero, le perizie dovevano proseguire altrove e la competenza della polizia di frontiera terminava legalmente con quell’atto. Il vice ispettore dovette arrendersi ma pretese che, una volta svolte le indagini del caso, la Signora tornasse a Ventimiglia sotto la custodia della Polizia di Frontiera. Si accordarono affinché almeno il biglietto rimanesse lì. I tre uomini non si opposero, a loro il resto non interessava più.

POLIZIA DI STATO
SETTORE POLIZIA FRONTIERA
VALICO FERROVIARIO
VENTIMIGLIA

OGGETTO: Verbale di affidamento di un quadro raffigurante “Ritratto di signora” di Gustav Klimt al fine di accertare l’autenticità dello stesso. Il quadro misura cm 57 x 70, compreso di cornice nera.

L’anno 1997 Addì 16 del mese di Aprile, alle ore 10.25 negli uffici del Settore Polizia di Frontiera di Ventimiglia (IM), Valico Ferroviario. Noi sottoscritti, ufficiale di P.G., vice ispettore Polstato Renato BIANCIARDI, in servizio presso il suddetto Ufficio, rendiamo noto di aver proceduto all’affidamento del quadro in oggetto indicato, rinvenuto abbandonato in data 31-03-1997 da personale di questo ufficio, all’interno della stazione ferroviaria di Ventimiglia. Il quadro viene affidato al Sig. GALLARATI Lino, nato il 14.01.1920 a Borgonovo V.T. e residente in Piacenza in via IV Novembre Nr. 146, identificato a mezzo di C.I. Nr. AB 0817599 ril. dal Comune di Piacenza in data 19.12. 1996, in qualità di Presidente della galleria d’Arte moderna “RICCI ODDI” di Piacenza.
Il Sig. Gallarati, viene reso edotto che al termine dell’accertamento, il quadro in questione dovrà essere restituito a quest’Ufficio nelle condizioni in cui è stato consegnato. Fatto, Letto Confermato e Sottoscritto in data e luogo di cui sopra, significando che una copia viene consegnata all’interessato per notifica. Il presente verbale viene chiuso alle ore 10.35.

Terminata anche questa operazione, fu il vice ispettore ad appoggiarmi alla scrivania e con l’aiuto della signorina che aveva portato il caffè avvolsero vari strati di carta attorno alla stretta cornice nera che mi conteneva. Piombai nell’oscurità. In quel tempo dedicato ai preparativi, cercai di imprimere nella memoria i tratti del viso dell’uomo che aveva avuto per me un’attenzione speciale. Ero convinta che solo lui mi avesse compresa, lui non credeva alle loro parole, lui desiderava che rimanessi, lui, come me, era vittima di un equivoco. Provai a guardarlo intensamente per comunicargli il dispiacere che provavo nel doverlo lasciare, ma il mio sguardo non incrociò mai il suo, che pareva assorto, come assente. Sentii le mani dei tre uomini sorreggermi delicatamente, provai una specie di ebbrezza quando mi portarono all’aperto, percepii intorno a me una mescolanza di profumi e di odori, percezioni così forti che ne fui stordita e poi udii solo il tonfo di un oggetto pesante richiudersi sopra di me. Il buio aveva iniziato il suo corso, la nostalgia del vice ispettore mi divorava, perdere il suo sguardo era un’idea insopportabile.

Il rumore intorno a me cresceva fortissimo, solo da lontano ormai mi giungevano le voci dei tre uomini che, senza alcuna sensibilità, mi avevano portato via. Cercai di prestare attenzione ai loro discorsi, di seguirne il filo, ma ero scossa da balzi e sussulti che non sapevo più riconoscere se fossero i miei o causati da qualcosa all’esterno. Mi domandavo cosa fosse “l’indagine scientifica” tante volte chiamata in causa dal vice ispettore e speravo che potesse restituirmi a me stessa e al mondo. A un certo punto i singhiozzi cessarono e rimase solo il buio, era impossibile resistergli, mi lasciai andare e galleggiai a lungo sospesa nell’oscurità, infine mi arresi.

Giorno imprecisato.
Magazzino della Galleria Ricci Oddi – Piacenza

Avviluppata, costretta, condannata a un buio senza fine: continuo e perenne, denso e carico, fitto e inscalfibile. Da quanto tempo perdurava quel buio? Non ero in grado di misurarlo. Filtrava, solo ogni tanto, una striscia di luce chiara. Durava un istante, brevissimo, poi l’oscurità ricominciava, ininterrotta, per un nuovo lasso di tempo incalcolabile. In quel breve istante, quando il chiarore varcava improvvisamente la soglia della prigione, mi svegliavo e ricordavo il buio, ne prendevo coscienza e cominciava la disperazione. Poi la luce di colpo svaniva, il buio tornava subito fitto e io precipitavo nell’oblio, dentro un sonno lungo e vuoto. Quando accadeva che un raggio di luce mi raggiungesse, era come una lama, una ferita improvvisamente riaperta.

È successo, qualche volta, che quella falce di luce durasse un poco di più e allora superavo la prima fase del risveglio, violenta, vincevo la memoria della mia condanna e andavo oltre. Vagavo nel ricordo degli sprazzi di luce che avevo conosciuto, cercavo di ricucire le trame della mia identità, quasi dissolte, liquefatte, e ricordavo. La memoria tornava a poco a poco a quei giorni in cui avevo scoperto il mio volto attraverso il suo e il mondo aveva giocato con me, restituendomi il riflesso, talora scomposto ma altre volte completo, della mia figura. Mi perdevo a ripercorrere di me ogni tratto noto. Quel ricordo, però, finiva per sollecitare la stessa angoscia da cui ero partita e mi coglieva prepotente e identica: la tensione lacerante verso la luce, il rifiuto drastico della mia condizione. Io, creata per essere guardata, per vivere negli occhi di un osservatore, per lasciare di me un’impressione più o meno precisa, più o meno carica di emozione; io, condannata alla privazione, all’assenza, all’incomunicabilità.

Se quei saltuari istanti di coscienza mi avevano portato a qualcosa, era la chiara consapevolezza che nell’oscurità cessavo di esistere: non ero, semplicemente. E io volevo essere. Avevo rinunciato, ormai, al gradino successivo: essere riconosciuta. Un giorno, però, accadde qualcosa di diverso. La luce perdurò, la porta si aprì. Sentii che misteriosamente l’attenzione era tornata, rinnovata, su di me. Non ne conoscevo le cause e sapevo di non avere alcun potere sulla mia esistenza, pertanto cercai di restare vigile nell’attesa e accarezzai di nuovo una speranza, quella di approdare ad una condizione meno infelice: venire alla luce.

Novembre 2011, Comando-stazione dei Carabinieri
Nucleo Tutela Patrimonio culturale – Bologna

“L’ennesimo esempio di indagini all’italiana!”

“Ha proprio ragione capitano, è davvero incredibile che dal Novantasette a oggi nessuno si sia preoccupato di accertare l’autenticità del dipinto!”

“Si figuri appuntato, nessuno l’aveva più in nota. È stato dato per falso e poi dimenticato. Una verifica scientifica è comunque necessaria, a maggior ragione in un caso così straordinario e sotto gli occhi di tutti… Appuntato, rintracci la perizia di allora, quella del Novantasei, dovrebbe trovarsi nel fascicolo del primo faldone a sinistra, dentro l’armadio”.

“Capitano, permette una domanda?”

“Certamente, mi dica”.

“Lei nutre speranze di ottenere un esito diverso?”

“Assolutamente no, ma affinché l’indagine sul furto sia condotta con tutti i crismi è necessario che siano portati a termine i passaggi rimasti in sospeso, anche se si tratta di piste collaterali”.

“Pensi che figuraccia se la Signora del magazzino dovesse essere quella vera, quattordici anni di ricerche per poi scoprire che si trovava esattamente nel posto da cui è stata portata via”.

“Non scherziamo appuntato, non siamo dentro una barzelletta, abbiamo tra le mani uno dei furti più eclatanti degli ultimi decenni, la Signora vale decine di milioni di euro”.

“Ho trovato la perizia, capitano! Le interessa qualche passaggio in particolare?”

“Sì, la parte tecnica relativa agli strati pittorici. Me la rilegga per cortesia”.

“Allora, da qui dovrebbe andare: Lo strato superficiale del dipinto presenta problemi legati al suo grande spessore. La tavolozza impiegata dall’artista si è rivelata discretamente ricca di colori: in particolare si è evidenziato l’uso di verde ossido di cromo e o di cobalto, blu di Prussia, lacche rosse e in minor misura di vermiglione, bianco di piombo, nero di grafite, e giallo cromo e o di cadmio. Le indagini hanno soprattutto confermato l’esistenza, al di sotto del dipinto attuale, di una precedente stesura, riconducibile al dipinto del millenovecentodieci dichiarato disperso, che raffigura nella medesima posizione la stessa modella nel periodo della gioventù. Procedo capitano?”

“Sì, proceda!”

“Inoltre sono state rinvenute tracce di un disegno preparatorio eseguito con nero grafite, rinforzato a pennello in alcune delle sue parti. Sull’abbozzo sottostante, in corrispondenza del cappello, si evidenziano pennellate sottili senza soluzione di continuità, con una densità di pigmento non rilevante. Infine sul telaio sono state evidenziate tracce di materiale scrittoreo eseguite a matita, correlabili probabilmente alla firma dell’autore”.

“Molto bene, questi sono esattamente tutti gli elementi che non dovremmo riscontrare nella Signora qui presente”.

“Tutto sommato è stato un gran colpo di fortuna che quella ragazzina del liceo artistico si sia accorta del quadro nascosto, è molto più facile adesso riconoscere un falso”.

“Ahimè, appuntato, dal punto di vista artistico certamente, ma credo ci sia proprio quella scoperta all’origine del furto. Non a caso è avvenuto solo pochi mesi dopo la rivelazione”.

“Chissà dove si trova ora l’originale, è davvero un rebus questo caso”.

“Se ci pensa bene, appuntato, sono tanti gli elementi misteriosi relativi alla Signora, fin dalle sue origini. A differenza di tanti ritratti di donne della buona società viennese, nel nostro caso non si conosce l’identità della modella che posò per Klimt. Potrebbe trattarsi di una delle sue numerose amanti, forse dell’ultima. Poi c’è il mistero del Ritratto di ragazza: realizzato nel 1910, esposto a Dresda e poi dato per disperso; è stata necessaria l’intuizione di quella ragazza per scoprire, a distanza di settant’anni, che si trovava proprio sotto al nostro Ritratto di signora. Infine il furto, le piste che si moltiplicano, la cornice ritrovata sopra il lucernario, le dichiarazioni di ladri reo confessi che saltano fuori a ogni soffio di vento. A complicare il tutto ci si è messo anche questo falso perfetto, uscito fuori all’improvviso da un vagone ferroviario, chissà se scopriremo mai chi lo ha condotto fin lì e a quale scopo…”

“Capitano, non voglio interromperla, ma credo sia ora di andare, ci aspettano al Sant’Orsola tra mezzora per i raggi X”.

“Forza, non perdiamo altro tempo. Carichiamo il quadro in auto e chiudiamo anche questa storia”.

Martedì, 13 febbraio 2012 – Bologna
Falso Klimt smascherato in ospedale con raggi X

“Il falso – sequestrato lo scorso anno in un magazzino abbandonato di un museo sempre a Piacenza – è stato scoperto, appunto, dopo un esame con i raggi X nei reparti di radiologia degli ospedali Sant’Orsola e Bellaria di Bologna. Klimt dipinse, infatti, la donna prima con un cappello in testa e poi lo sostituì coprendolo con un turbante. Ma la speciale radiografia ha mostrato l’assenza del ripensamento dell’artista provando, dunque, il falso”.
Agenzia giornalistica Italia

Giorno e luogo imprecisato

Ora so, di me sopravvive un frammento, attraversa il tempo e la materia, non ha corpo, non ha età. Eppure ha una sua forma, è grazie a essa che esiste. È una forma fissata su una tela; è un profilo, un insieme armonico di colori, è l’inclinazione esatta del capo, la posizione delle spalle, la direzione dello sguardo. Ogni dettaglio alimenta e compone la mia essenza. Non importa cosa ci sia sotto la superficie, da quanti e quali strati sia composta. Non importa se sul telaio non sono state evidenziate tracce di materiale scrittoreo, la firma del grande artista è assente. Non ho conosciuto la donna che ero: né la giovane, né quella più matura. Non ho memoria, non conosco Vienna e nemmeno la mano del pittore che ha lavorato servendosi di nervi, muscoli e immaginazione per portarmi alla luce.

Qualcun’altro lo ha sostituito, con altri nervi, altri muscoli, altre dita, altri occhi, eppure vi ha soffiato dentro la stessa essenza, forse smemorata, ma capace di risvegliarsi al cospetto di uno sguardo, capace di comunicare, di entrare in relazione, con le stesse regole sfuggenti delle opere d’arte. Sono arrivata dopo, ma non tardi. Ora so, quel frammento ha una sua storia, che è distinta, nuova, avanza e viaggia su un binario parallelo. La mia storia ha avuto inizio in quella stazione di polizia a Ventimiglia, e ha solo me come protagonista. Non prevede contraffazioni, sovrapposizioni. Oggi veglio e osservo. La mia essenza è la luce che rischiara, perché dove c’è molta luce, l’ombra è più nera.

sabato, 10 settembre 2016 – Ventimiglia

Il vice ispettore Renato Bianciardi si alzò dalla poltrona, spense la televisione e chiamò Nuvola. Al solito richiamo del padrone, il grosso gatto dal pelo lungo e bianco balzò giù dal letto e si infilò velocissimo nella fessura della porta sparendo in strada, lo avrebbe trovato l’indomani, al di là dell’ingresso, a miagolare sornione pronto per la colazione. L’uomo, rimasto solo in casa, si avvicinò alla finestra socchiusa, la spalancò e accese uno dei suoi sigari migliori, aveva voglia di fumare qualcosa che lo soddisfacesse davvero.

Nel pomeriggio aveva ricevuto una strana telefonata, da quel momento si era sentito in sospeso, irrisolto, come se un tarlo avesse iniziato a divorarlo, con un lavorio incessante, da dentro lo stomaco. Una donna lo aveva chiamato da Piacenza all’apparecchio di casa, rivangando una storia ormai fuori dal tempo. Nelle ore successive aveva evitato accuratamente di fermarsi a pensare, il dialogo era stato rapidissimo, ora quasi dubitava che fosse accaduto davvero.

Richiamò alla mente le parole della telefonata. Cosa gli aveva detto di preciso quella donna? Aveva parlato di un racconto sul furto del Klimt, aveva addirittura tirato in ballo il verbale del ’97, quando lui stesso aveva consegnato il quadro al Presidente della galleria. E poi? Ah, gli aveva chiesto se la Signora fosse tornata sotto la sua custodia, visto che ormai era stato accertato che si trattava di un falso. Quel dettaglio se l’era dimenticato. Alla donna della telefonata aveva semplicemente risposto che non ne sapeva nulla, che era stato interrogato giusto un paio di volte dalla Procura e che poi tutto era finito lì, perché la cosa non era più di sua competenza. Eppure quel pomeriggio si era risvegliato qualcosa di sopito, una brace mai del tutto spenta.

Nel buio della città silenziosa che si allargava oltre il suo davanzale, vide balenare i colori accesi del dipinto, incontrò di nuovo la freschezza e la vivacità di quel sorriso, l’eleganza dello sguardo e percepì, con la stessa intensità di allora, la pienezza e la potenzialità che quella presenza silenziosa avevano portato nella sua vita. Ne ebbe nostalgia. Si sorprese a pensare che forse, con un paio di telefonate e le parole giuste la Signora sarebbe potuta tornare indietro e che, anche se ormai era in pensione da qualche anno, qualche contatto ancora lo aveva a portata di mano.

In fondo, si disse, si tratta solo di una copia, ora che i riflettori sono spenti non interesserà più a nessuno.

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