Le Rubriche di PiacenzaSera - Nave in bottiglia

Italia Germania 4 a 3: nelle piazze rispunta il Tricolore

Torna la “Nave in bottiglia”, la rubrica di PiacenzaSera.it curata da Mauro Molinaroli. Cinquant’anni dopo più che un evento sportivo, la partita tra Italia e Germania, andata in scena ai Mondiali del 1970 in Messico, è poema epico

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Italia-Germania, 17 giugno 1970. Quei centoventi minuti in bianco e nero, vissuti davanti al televisore, visti cinquant’anni dopo, servono a far capire che allora più che una partita di calcio abbiamo vissuto un poema epico. Si mescolarono tante componenti che alla fine hanno fatto passare in secondo piano l’evento sportivo. Per innalzare quello fiabesco, elegiaco, universale. Quella partita rappresenta il primo vero bagliore di una stagione nuova in un anno di grandi cambiamenti. Rappresenta in sé il classico esempio di come, a volte, il naturale ed incredibile evolversi degli eventi riesce a superare anche la più fulgida immaginazione.

Quella notte fu il finimondo. Sì, il finimondo. Io c’ero, insieme a migliaia di piacentini. Con la gioia più autentica, prese corpo – senza che ne comprendessimo la portata – qualcosa di più grande di una passione sportiva. Penso sia nato, davanti ai teleschermi, un fulmineo e irresponsabile movimento collettivo. La conferma arrivò quando, a partita finita, piazza Cavalli fu il punto d’arrivo di tante auto e quando qualcuno si arrampicò dalla gioia sui lampioni, mentre la gente si affacciava alle finestre e i clacson delle auto svegliavano la città da un antico torpore. Sì, perché Italia-Germania fu – e resta – la scoperta anomala di un nuovo sentimento nazionale. Sono orgoglioso di questa gioia immensa vissuta col fiatone, in maglietta e sull’auto dell’amico Amerigo, insieme con altri amici: una vecchia Fiat 850 che, partendo dall’Infrangibile, irruppe di prepotenza insieme a centinaia d’altre auto, nel cuore del centro storico. Mi sentivo eroe e scapestrato. Ero vivo come mai ero stato prima, in quella notte indimenticabile, che l’indomani “Libertà” liquidò con tre colonne di centro senza foto, ma fu festa vera, con tanta gente.

Goal

Vivevamo una stagione difficile. C’erano le lotte operaie, la rivolta studentesca, una forte tensione sociale ma anche tanta partecipazione. Qualcuno temeva che durante la partita qualche malintenzionato potesse approfittare delle strade deserte per combinare qualche guaio. Soprattutto a Milano, dove la strage di piazza Fontana era una ferita che sanguinava ancora. C’era, però, anche il timore opposto, quello della confusione; ossia che alla fine della partita qualcuno potesse utilizzare eventuali esplosioni di tifo per commettere violenze, espressioni della più cruenta guerriglia urbana. Invece, non successe nulla, proprio nulla. La gioia di tutti era troppo grande, per pensare a distruggere.

Molto casino, tante macchine, grida e canti fino all’alba, un’allegria collettiva sconosciuta. Un clima straordinario. Cosa ricordo di quella notte? Tutto, ma il gol di Rivera resta un capolavoro nella sofferenza. Poi la gioia, gli amici e il bisogno di catapultarci in strada. Lungo via XXIV Maggio e via Genova c’era il mondo. Sì, il mondo. Inconsapevolmente, alla velocità della luce, prese forma qualcosa di più grande di una passione sportiva. Lo stato emotivo fu qualcosa di paragonabile a ciò che si genera dentro un movimento collettivo. Il sentimento eruppe liberatorio da ciascuno dei telespettatori, collegandosi con quello degli altri, facendo massa sempre più impetuosa. Perché da ogni famiglia, da ogni casa o da ogni bar tenuto aperto per l’occasione, l’urlo dei singoli o dei piccoli gruppi usciva nell’aria afosa della notte, facendosi boato.

Fino a quel giorno, meglio, fino a quella notte tutto questo non era mai accaduto. Si è ripetuto dopo, fino a sembrare normalità, fino a diventare rito: con le gioie successive, con le feste che sarebbero venute, di club o di nazionale. Ma, il modello di comportamento nacque in quel momento perché allora, solo allora, si sprigionò la forza necessaria all’innovazione creativa con il formidabile trionfo della gioia sull’odio. Trionfo passeggero, effimero, d’accordo, ma così profondo, da risultare indimenticabile. In quella notte, noi tutti riscoprimmo la Nazione. Dietro al gol liberatorio di Rivera vedemmo, senza capirne bene i contorni, il Tricolore. Gioimmo insieme e questo moltiplicò la gioia, ne fece tutt’uno con il boato che girava e si ripeteva per il Paese. Quella notte fu come se la storia si fosse presa una tregua, restituendo ad ognuno di noi quel che si stava bruciando sui suoi altari. La notte tra il 17 e il 18 giugno Piacenza perse il suo antico pudore. Poi il corso della storia di quegli anni, di quei mesi, di quei giorni, sarebbe ripreso dividendo, erigendo barriere e scavando fossati. Sarebbe ripreso il progresso attraverso il conflitto.

Il giorno stesso della partita, peraltro (l’ho scoperto dopo), era ricominciata in parlamento la battaglia sul divorzio. La battaglia si sarebbe conclusa solo quattro anni dopo con il referendum del 12 maggio. Concludo: per quanto bella, è poi stata solo una partita. Cosa successe per mitizzare così tanto una partita? Mi vengono in mente due spiegazioni. Avevamo l’età giusta. Tutto lì. Avevamo l’età in cui le cose sono indimenticabili. E poi, quella sera la partita l’abbiamo vinta. E nel calcio conta soprattutto vincere.

Mauro Molinaroli

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