“Fu Cavour a delineare la strada per la presa di Roma”

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L’Italia ha appena compiuto 150 anni. Era, infatti, il 20 settembre del 1870 quando le truppe italiane entrarono a Roma attraverso Porta Pia.

La storica data è stata ricordata dalla Banca di Piacenza a Palazzo Galli con la presentazione di una pubblicazione edita da Libro Aperto (“Libera Chiesa in Libero Stato – Roma capitale d’Italia”) curata da Corrado Sforza Fogliani con postfazione di Antonio Patuelli. All’incontro culturale – che si è svolto in Sala Panini, con le sale Verdi e Casaroli videocollegate – erano presenti il prefetto Daniela Lupo, il questore Filippo Guglielmino e il comandante provinciale dei Carabinieri Paolo Abrate, tutti da poco a Piacenza e per la prima volta a Palazzo Galli: una circostanza sottolineata dal presidente esecutivo Corrado Sforza Fogliani che, com’è tradizione della Banca, ha loro donato il volume dedicato proprio al palazzo di rappresentanza dell’Istituto di credito di via Mazzini.

Il libro su Roma capitale – distribuito al termine della conferenza a tutti i presenti – riporta i tre discorsi che Camillo Cavour tenne alla Camera e al Senato Regio tra il marzo e l’aprile del 1861, «discorsi – ha sottolineato l’avv. Sforza Fogliani – da (e di un) grande statista, nei quali il Presidente del Consiglio delineò lucidamente, con ferrea ed esemplare logica, mista a vivo amore patriottico, le ragioni incontrovertibili che volevano Roma capitale del nuovo Stato liberale».

L’autore della pubblicazione ha spiegato come la Presa di Roma non possa considerarsi «un episodio» bensì «la conclusione di un processo di totale cambiamento dell’Europa» con la caduta di Napoleone III (1870), la nascita della Germania e il ridimensionamento degli stati francese e austriaco: «Un insieme di coincidenze che permisero il coronamento del sogno di Cavour, coltivato fin sul letto di morte (mancato, giovanissimo, appena superati i 50 anni)». A Roma – disse in buona sostanza il conte – ci si doveva andare con l’accordo della Francia («per non scatenare un conflitto internazionale»), che considerava lo Stato della Chiesa un suo protettorato; «ma ci si doveva andare – ha rimarcato Sforza nella sua disamina della Presa di Roma dal punto di vista storico – invocando il principio di libertà. Era necessario che i cattolici italiani si convincessero che (come fu poi dimostrato con la legge della Guarentigie nel 1871) si sarebbe potuta, come si potè, conservare l’indipendenza del Papato.

Il principio di libertà, spiegò Cavour, applicato alla società religiosa era un “principio nuovo”, nel quale si doveva credere e per la cui affermazione ci si doveva battere così come egli si batteva. E ciò ben sapendo, disse il conte con ironia, che se la Chiesa avesse accettato il principio di libertà, si sarebbe subito formato un partito cattolico che lo avrebbe costretto a finire la carriera sui banchi dell’opposizione». La Chiesa, come noto, non accettò («la fase diplomatica non andò a buon fine perché Pio IX non voleva consegnare ai suoi successori uno Stato Pontificio a sovranità ridotta») e per tutta risposta adottò il Sillabo contro le libertà di ogni tipo, compresa quella religiosa.

Dopo lo spostamento della capitale da Torino a Firenze – tappa di avvicinamento alla soluzione finale – dal 6 settembre del 1870 iniziarono i primi movimenti per la conquista (militare) di Roma, perché fu allora che avvenne il ritiro della guarnigione francese. Tutto avvenne senza particolari spargimenti di sangue, anche per la debole opposizione dei soldati pontifici. L’avv. Sforza ha poi posto l’accento sul discorso di Cavour del 9 aprile 1861 (“Libera Chiesa in libero Stato”): «Una lettura confortante – ha osservato – che la dice lunga sulla qualità della classe politica che aveva allora l’Italia. Più che un discorso, è un teorema matematico sul perché e sul come l’Italia doveva raggiungere Roma e possiamo dire che ci arrivò proprio nei tempi previsti dal conte».

E trattando degli uomini che fecero l’Italia e della loro statura politica, l’avv. Sforza ha concluso il suo intervento facendo un parallelo con Einaudi: «Nel suo messaggio d’insediamento alla Presidenza della Repubblica espresse un concetto magnifico: “Voi mi avete eletto e io accetto volentieri, ma la cosa che più mi dispiace è che non potrò più partecipare ai dibattiti in Senato e quindi non avrò più il piacere intellettuale di cambiare idea sentendo i discorsi degli avversari politici”».

Il ten. col. Massimo Moreni del 2° Reggimento Pontieri ha trattato l’aspetto militare della Presa di Roma, spiegando che fondamentale per il via libera all’operazione fu il ritiro della guarnigione francese. «A quel punto le forze in campo erano decisamente squilibrate – ha rilevato -: 60mila soldati italiani contro i 14mila dell’esercito pontificio. Fu chiesto al Papa di non opporre resistenza ma la risposta fu: “Sono risoluto di fare resistenza come m’impone l’onore e il dovere”. Per il nostro esercito l’unico vero ostacolo fu il Tevere. Ma a questo pensarono i Pontieri che in sole 8 ore costruirono un ponte che permise all’esercito di attraversare il fiume e fare breccia a Porta Pia, incontrando una resistenza inconsistente».

Il dott. Cesare Zilocchi si è infine occupato dell’aspetto sociale della presa di Roma, con la nascita di piccoli movimenti rivoluzionari (d’ispirazione mazziniana) in città di medie dimensioni, che avrebbero dovuto provocare la caduta della monarchia: il cosiddetto “Patatrac”. «Da quale città far partire il disegno insurrezionale? Da Piacenza che, in quanto città murata – ha spiegato il dott. Zilocchi – avrebbe poi richiesto l’impiego di 40mila soldati regi per riconquistarla». Di quel tentativo (fallito) d’insurrezione del 24 marzo 1870 riferiscono tutti gli storiografi piacentini, ma a chi volesse approfondire l’argomento l’oratore ha consigliato la lettura de “La storia di Piacenza” di Francesco Giarelli, ristampata in anastatica dalla Banca nel 1985.

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