Le storie di umana dignità ritratte in foto da Sergio Ferri in mostra a Lodi

Chi ha lo sguardo rivolto ai mutamenti sociali in atto e ai disagi dei più fragili, lo mantiene vigile soprattutto nei momenti difficili, perché questi, più di altri, sono necessari da raccontare, se dischiudono un mondo diverso dall’ordinario al quale eravamo abituati, aprendo nuovi orizzonti di vita da esplorare.

Così ha fatto il fotografo piacentino Sergio Ferri, da anni interessato a documentare i cambiamenti della sua città e le persone che li vivono nei suoi reportage fotogiornalistici, che non si è fermato neppure durante la pandemia di Coronavirus. Nei mesi del lockdown il suo obiettivo, sempre sincero e discreto, ha raccontato ‘gli invisibili’ della città di Piacenza, coloro che non potevano rispondere all’appello istituzionale ‘restate a casa’ perché una casa non ce l’avevano: gli ospiti del rifugio Segadelli, vicino alla stazione ferrovia. Oppure chi, in casa, aveva bisogno di cibo, spesa, medicine, beni di prima necessità: anziani soli, disoccupati.

Macchina fotografica in spalla, seguendo tutte le precauzioni necessarie, Ferri ha messo a fuoco soprattutto la rete di solidarietà che in brevissimo tempo è stata costruita per tutelare i più fragili, cercando di raccontare l’emergenza non dal punto di vista sanitario, fin troppo risonante mediaticamente, ma piuttosto sociale. I suoi ritratti hanno dipinto, con umile sincerità, molteplici ambienti e individui inseriti nella rete solidale piacentina: dal dormitorio chiuso e a capienza ridotta per garantire agli ospiti del rifugio Segadelli un alloggio e una quotidianità sicuri, protetti del contagio, alla distribuzione dei pasti nelle abitazioni da parte degli operatori comunali e del privato sociale della Ronda della Carità, fino all’incredibile operato di Caritas Diocesana.

“Una macchina da guerra in tempo di pace” ha detto Ferri, riuscita in sole due settimane a riorganizzare e potenziare i propri servizi (logistica, accoglienza, igiene, ristoro), a fronte dell’incremento di utenti, grazie al personale volontario; passando per gli operatori della Croce Rossa Italiana, occupati non solo sul piano sanitario, ma anche nella consegna a domicilio di viveri e medicinali per chi non poteva procurarseli. Un microcosmo di vita, aiuto e fragilità racchiuso nelle immagini del fotografo piacentino, che non poteva non essere raccontato in una delle città più duramente colpite dalla pandemia.

Fino a “Life in the time of Coronavirus”, mostra allestita a Codogno e collaterale al Festival della fotografia etica di Lodi, in cui , fino al 25 ottobre, ogni sabato e domenica, si possono ammirare gli ultimi scatti di Sergio Ferri: quelli risalenti alla convivenza con il virus, dopo la riapertura di attività e luoghi pubblici, in particolare luoghi di culto. Nell’epicentro di quella che fu la prima zona rossa d’Italia (nel cortile del municipio di Codogno, via Vittorio Emanuele 2, civico 4) le immagini di Ferri, unico fotografo piacentino presente in rassegna, raccontano la forza del virus, ma anche la capacità resiliente dell’uomo di adattarsi alla nuova normalità per cercare di conservare dignità e benessere. Un’iniziativa promossa da diverse realtà: Roma Fotografia, magazine Il Fotografo, Festival della Fotografia Etica di Lodi, con TWM Factory e The Walkman Magazine.

Gli scatti di Ferri, già apparsi su Libertà in un reportage fotografico intitolato “Ogni (benedetta) domenica”, sono dedicate al modo in cui la pandemia ha mutato i riti devozionali e il modo di vivere la fede tra le diverse religioni presenti a Piacenza, perché per molti le cerimonie religiose sono cibo per l’anima. Anche fedeli e luoghi di culto si trovano chiaramente a dover fare i conti con i nuovi limiti imposti dal virus, ma non per questo rinunciano ad esprimere la loro essenza: ecco allora l’Eucaristia distanziata nella messa cattolica di S.Franca, le mascherine, i posti segnalati sul pavimento nella chiesa ortodossa dei Santi Tre Vescovi per evitare assembramenti, il pasto solo simbolico al centro sikh di Fiorenzuola, dove il direttore Prem Pal Singh ha messo disinfettante al posto dell’acqua santa; e l’obbligo di portare da casa il tappetino per la preghiera del venerdì al Centro islamico di strada Caorsana, dove l’imam Sheykh Yaseen Ben Thabit deve ogni volta misurare la temperatura prima di entrare in moschea. Mentre i fedeli ortodossi non baciano più le icone, ma appoggiano solo sopra la testa.

Foto disposte una dopo l’altra, a comporre il mosaico di un racconto collettivo, dove la ritualità è cambiata, ma desiderata e vissuta, per ritrovare comunità e superare il dramma. Scatti in cui lo sguardo del fotografo non è mai casuale o scontato, ma è sempre scelto, acuto nel ritrarre l’umanità di piccole vite di un mondo in continuo divenire.

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