Lo scrittore piacentino Dadati in libreria con “La modella di Klimt”: l’arte come memoria vivente del Novecento

Un ritratto dipinto due volte, un mistero durato 23 anni ancora da chiarire, un romanzo che attraversa tutto il Novecento, dove solitudine e legami dei personaggi percorrono generazioni.

Questi gli ingredienti che danno forma al nuovo, avvincente, libro dello scrittore piacentino Gabriele Dadati “La modella di Klimt. La vera storia del capolavoro ritrovato”, edito da Baldini+Castoldi e in libreria dal 12 novembre, in attesa del ritorno alla Ricci Oddi del celebre dipinto il 28 novembre.

Gabriele Dadati

Protagonista del romanzo il “Ritratto di signora” di Gustav Klimt (1862-1918), quadro di uno tra i più importanti artisti austriaci. L’opera, dal 1931, è di proprietà della Galleria d’arte moderna Ricci Oddi di Piacenza. Il furto del dipinto nel 1997 e il suo misterioso ritrovamento nel dicembre 2019 in un’intercapedine della parete esterna della Galleria, fanno il giro del mondo, diventando notizie di primo piano su tutti i media internazionali. Lo stesso era accaduto nel 1996 con la clamorosa scoperta dell’allora studentessa Claudia Maga: l’artista aveva stranamente dipinto due volte la stessa tela, ritraendo il medesimo soggetto in due circostanze diverse.

Ma chi è la donna del quadro? Perché Klimt l’ha dipinta due volte? Chi ha rubato l’opera? Chi e perché l’ha restituita? Nel libro di Dadati c’è il tentativo di rispondere a tutte queste domande, partendo dai fatti realmente accaduti. Ma c’è di più: le travagliate vicende del dipinto diventano per lo scrittore l’occasione di un suggestivo excursus storico alla scoperta della Vienna Klimtiana: quella delle boutique d’alta moda, e delle atelier, del mondo dell’arte, della Secessione e della Wiener Werkstätte, delle carrozze lentamente sorpassate dalle automobili coi sedili in cuoio elegante; ma anche di una città ridotta alla fame, per la guerra che infuria a inizio Novecento.

Un viaggio affascinante dove la Storia convive con il romanzo senza mai essere mistificata dall’invenzione letteraria, in cui la ricerca documentaria si inserisce tra le vicissitudini d’amore e morte di personaggi reali e d’invenzione, che sopravvivono e si ritrovano grazie all’opera d’arte; quel doppio ritratto che non muore, ma, come cosa viva, parla con gli occhi agli occhi di chi guarda. Abbiamo parlato con l’autore per scoprire cosa l’ha spinto a scrivere un romanzo- confessione, per capire meglio la genesi e il respiro di quello che lui sente come il suo “Cent’anni di solitudine italiano, e anche un po’ europeo”.

Gabriele, trafugamento e casuale ricomparsa del “Ritratto di signora” hanno fatto scalpore nel mondo. Come è nata l’idea di questo libro sul capolavoro di Klimt?
Conosco Klimt e le vicende dell’opera da sempre, tanto che il mio primo lavoro dopo la laurea nel 2006 è stato come assistente di Stefano Fugazza, allora direttore della Ricci Oddi. Il quadro, rubato quando io ero solo un ragazzino, l’avevo studiato e visto tra i cataloghi, sapendo bene cosa per Stefano avesse significato quel furto: tanta amarezza e una profonda ferita. Ma la ricomparsa del dipinto alla vigilia dell’inaugurazione della mostra celebrativa per i dieci anni dalla scomparsa di Fugazza alla quale io stavo lavorando, mi è sembrata un segno propizio, un omaggio risarcitorio alla sua memoria. Per me era amico, guida e maestro complice, per cui l’emozione, proprio mentre lavoravo alla mostra in suo ricordo, è stata tanta. Da qui è nata la mia spinta a fare ricerca approfondita su Klimt e sul suo mondo e poi l’idea di questo libro.

“Gli occhi che mi fissavano dalla tela […] erano buoni. Ed erano l’unica cosa viva, sì, viva, che rimaneva della mia famiglia”. In queste righe di copertina è racchiusa l’essenza del racconto…
Sì, avevo bisogno di far vivere l’opera, perché i miei personaggi sono legati tra loro e sopravvivono proprio attraverso l’opera d’arte, il ritratto di Klimt. Volevo rendere l’opera non più soltanto un oggetto, ma fonte di vita e di memoria. L’ho fatto mettendo insieme come in una costellazione le quattro domande fondamentali che sono alla base del mio romanzo: chi è la donna del quadro? Perché Klimt l’ha dipinta due volte? Chi ha rubato l’opera? Chi e perché l’ha restituita? Ogni risposta fa scaturire la questione successiva e la seguente risoluzione , tramite le vicende dei miei personaggi. Il quadro di Klimt nel libro diventa quindi memoria vivente nella Storia del Novecento: una storia simile a Cent’anni di solitudine – stavolta italiano e anche un po’ europeo potrei dire – vista la riscoperta della Vienna novecentesca. Non mi voglio paragonare a Màrquez, ma nel romanzo l’abbandono vissuto dalla modella di Klimt è il seme per la solitudine dei personaggi successivi e per il loro legame.

Non a caso gli occhi sono centrali
Lo sguardo celestino e malinconico è il primo a colpire in questo ritratto femminile di Klimt: sono occhi più espressivi di qualsiasi parola. Pensiamo poi alla simmetria perfetta per cui noi ci rapportiamo sempre ad un opera d’arte attraverso gli occhi, la indaghiamo e apprezziamo con lo sguardo. Ma qui è lei stessa a parlarci con gli occhi. Non è quindi un caso se nella mia narrazione lo sguardo è elemento centrale tra i personaggi, come strumento per riconoscersi reciprocamente, per prendersi cura l’uno dell’altro; perché lo sguardo rivela verità che le parole spesso nascondono.

All’inizio del libro dichiari: “Ho rinunciato ad essere un narratore onnisciente”
Questa è una storia che mi travolge e che non posso controllare. Il Gabriele del romanzo viene raggiunto dalla vicenda, da un uomo che rivela la verità sul quadro, e quindi può solo raccontare quello che gli è stato detto. Per la prima volta non si tratta di un narratore che costruisce la storia, ma si fa solo tramite, come nei grandi racconti della tradizione antica, a cominciare dalle storie dei pellerossa.

La vicenda trae spunto dalla cronaca e diventa romanzo. Come convivono nella tua opera realtà e invenzione letteraria?
Tenendo come riferimento basilare le date che sappiamo riferite al furto, al ritrovamento del quadro e ancora prima al suo acquisto presso la Galleria Ricci Oddi nel 1931, per il mio excursus storico tra Vienna e Piacenza ho studiato tutto quello che potevo della realtà, cercando di mantenermi fedele fin nei particolari: in che anno Klimt era in quale studio, come era fatto, com’era il suo giardino, quanti gatti aveva, quando comincia ad avere il telefono, quando si trasferisce e quali sono le sue amicizie importanti. Tutte questi aspetti sono veri, documentati da scritti, pubblicistica, cinegiornali dell’epoca, cataloghi e letture. Quindi la mia attività di ricerca storica è stata piuttosto intensa e approfondita, tanto sul fronte della moda, dell’arte e della cura del dettaglio, quanto dal punto di vista dei riferimenti temporali, considerando poi che eravamo in periodo di lockdown nazionale. E anche visivamente, descrivo i miei personaggi e l’ambiente in cui si muovono, li faccio vedere al lettore, ma non mi dilungo mai in descrizioni fine a se stesse; quello che rappresento è sempre finalizzato a illuminare situazioni particolari di quel momento e a facilitare la comprensione di chi legge, che deve rapportarsi con atmosfere e tempi diversi da quelli odierni. Per questo faccio sempre un uso attento delle parole. Non falsifico comunque mai la verità documentaria, personalmente lo trovo intollerabile, perciò la rispetto con estrema cura. Ho solo inventato alcuni personaggi o circostanze per illuminare coni d’ombra e verità mancanti, ma sempre in modo coerente con la realtà.

La narrazione è particolarmente mossa sul piano temporale, caratteristica che si ritrova anche nei tuoi romanzi precedenti, ma qui accentuata
La materia si presta di per sé ad essere raccontata per salti, perché la vicenda reale del quadro vive a singhiozzi ed è scaglionata nel tempo da singoli eventi. In più questo è il mio modo di raccontare, anche nei precedenti romanzi: con “L’ultima notte di Antonio Canova” mi sposto continuamente tra il 1822 e il 1810; in “Nella pietra e nel sangue” racconto quasi vent’anni di regno di Federico II muovendomi dal presente al passato, attraverso luoghi e tempi diversi. Il mio lavoro su Klimt abbraccia a tappe tutto il Novecento. Questa modalità di costruzione della vicenda mi permette di gestire al meglio una materia narrativa ampia, scegliendo singoli momenti per illuminare gli snodi fondamentali, ovvero quei momenti clamorosi che danno nuovo impulso e diversa prospettiva alla storia.

L’alone di mistero ci accompagna sempre, ogni capitolo schiude nuove verità inattese
È una scelta autoriale, per rendere palpabile la tensione della scoperta che si crea attorno alla vicenda del Ritratto e coinvolge tutti i personaggi e lo loro vite. Spesso infatti un nuovo capitolo, pur legato al precedente, non inizia risolvendo gli interrogativi pregressi lasciati sospesi, ma porta il lettore verso nuove direzioni; soltanto alla fine si comprendono la vera natura dei protagonisti e i loro rapporti. Siamo quindi di fronte ad un disvelamento progressivo, ma movimentato della vicenda, un meccanismo che comunque non travolge il lettore disorientandolo, ma lo guida e lo incuriosisce tra le pagine. Un libro che credo e spero sia accogliente, riuscendo a suscitare empatia, affetto e commozione nei confronti dei personaggi.

Idee per il prossimo lavoro?
Penso che prenderò una pausa temporanea dai romanzi per buttarmi su una biografia, ma non mi sento di anticipare ancora niente di preciso.

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