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Maradona: “Gli eroi son tutti giovani e belli”

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Penso alla scomparsa di Diego Armando e mi viene in mente tra i tanti che hanno scritto di lui, il regista Paolo Sorrentino: “Non è morto, è solo andato a giocare in trasferta”, sottolineando che il suo prossimo film, “È stata la mano di Dio” è quella di Diego Armando Maradona.

Il regista de “La grande bellezza” rende omaggio al suo idolo in una storia che trae ispirazione all’incidente del 1986 durante il quale persero la vita i genitori dello stesso Sorrentino, un dramma. Lui si salvò. Era a Empoli per seguire il Napoli di Maradona. Una storia, questa, che riporta ai tanti che hanno un ricordo legato al Pibe de Oro, al grande campione che il popolo napoletano e argentino lo hanno amato sempre nel bene e nel male. Un rito collettivo l’amore per Maradona che porta con sé ricordi dell’Italia povera di ieri, quella del Dopoguerra e degli albori del Boom economico, con due tragedie che hanno segnato tanta gente povera; il dramma del Grande Torino e la morte di Fausto Coppi, rispettivamente nel 1949 e nel 1960.

Il trimotore che riporta a casa da Lisbona la squadra pluricampione d’Italia del Torino precipita sulla collina di Superga alle 17.03 del 4 maggio 1949. Perdono la vita 31 persone tra giocatori, dirigenti, allenatori, giornalisti e uomini dell’equipaggio. Il giorno dei funerali, il 6 maggio 1949, oltre mezzo milione di persone scende in Piazza San Carlo, a Torino, per dare l’ultimo saluto ai giocatori. A poche ore dalla tragedia di Superga, l’Italia è già in lutto: il Grande Torino è da tempo al di sopra del tifo di parte e delle beghe di campanile. Rappresenta l’orgoglio di tutti; un simbolo della rinascita italiana dopo le piaghe della guerra; un inno alla gioventù, alla forza, alla lealtà. In un attimo finisce tutto, per un guasto, un errore o chissà che altro, di fatto gli eroi granata si fanno prima dolore, poi ricordo e infine mito.

Altra inspiegabile morte per gli sportivi italiani e di tutto il mondo, è quella di Fausto Coppi. Un febbrone l’assale dopo un viaggio in Africa, con lui c’è anche il ciclista francese Raphael Geminiani, che ha gli stessi sintomi, telefona immediatamente a Fausto dicendogli che gli hanno diagnosticato la malaria. A Tortona, dove Coppi è ricoverato, negano che si tratti di questo virus, salvo poi ricredersi quando la situazione sarà disperata. Nei media, la notizia prende tanto spazio da far passare in secondo piano quella della scomparsa, il giorno dopo, in un incidente automobilistico, del grande scrittore francese Albert Camus.

Coppi ha solo 40 anni, compiuti nel settembre 1959 e ha appena smesso l’attività agonistica. Per lui, si preparava un avvenire da dirigente della squadra di ciclismo fondata dall’ex rivale Gino Bartali. La resistenza fisica di Fausto è leggendaria, così come la sua capacità di sopportare il dolore, che ha affrontato moltissime volte. Quasi un alieno, se non fosse sempre così meravigliosamente, disperatamente umano nelle sue debolezze, a partire dalla travolgente passione per Giulia Occhini, una donna sposata con un medico, grande fan di Coppi stesso, che lo mette al centro non solo dei pettegolezzi ma anche della cronaca giudiziaria di un Paese bigotto com’era l’Italia di allora, in cui gli adulteri finivano in carcere. Muore il 3 gennaio del 1960. Il Paese si ferma, ai funerali una folla di gente umile che si identifica nel mito di Fausto così come si era identificata con il Grande Torino e così come Napoli e l’Argentina identificano in Diego Armando Maradona. Tre modi di morire diversi dunque, in epoche tra loro lontane, unite dalla popolarità dei loro eroi, che per dirla con il Poeta, “son tutti giovani e belli”.

Mauro Molinaroli

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