Le Rubriche di PiacenzaSera - Nave in bottiglia

“Io studente negli anni ’70, quando frequentavo la Passerini Landi”

La Nave in bottiglia di Mauro Molinaroli, dedicata al ricordo dei suoi anni da studente alla biblioteca Passerini Landi

Diceva Luchino Visconti che vivere è anche ricordare. Come dargli torto e come non sottolineare quanto affermava la tenutaria di un vecchio bordello genovese a proposito del ricordo, secondo la quale “il passato ha sempre il culo un po’ più roseo”. Già il passato che torna, come un tarlo o una consolazione, un ricordo o un desiderio. E in questo viavai di persone e fatti che sono poi la vita di ognuno, ritrovo i miei diciott’anni alla biblioteca comunale Passerini Landi. Eravamo intorno alla metà degli anni Settanta, allora la sala di lettura era collocata all’interno del salone monumentale, dove era situata anche la direzione: penso all’antica cortesia di Carlo Emanuele Manfredi e dei suoi collaboratori, all’ingresso situato appena dopo la chiesa di San Pietro, qualche gradino, il corridoio e una porta in legno ricoperta di tessuto che dava accesso a quel tempio non ancora dissacrato dai romanzi del nostro tempo o dall’effimera durata degli eventi culturali.

Il silenzio era d’obbligo, eravamo diversi studenti, ognuno preparava i propri esami all’università (in prevalenza studiavamo materie letterarie e giurisprudenza) e il luogo non aiutava a socializzare ma quando hai vent’anni e una voglia di vivere sterminata, ogni scusa è valida per uscire una decina di minuti per un caffè e scambiarti il numero del telefono fisso con qualche amica di università (ho scritto volutamente telefono fisso, un nemico per noi ragazzi). Si scontravano in quel tempio fatto di libri antichi, manoscritti medievali e incunaboli, due mondi: uno ricalca una frase dell’attivista politico statunitense Abbie Hoffman: “Eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo avventati, eravamo stupidi ma avevamo ragione”; l’altro che riportava alla Piacenza conventuale e guelfa che si esprimeva in biblioteca attraverso persone a noi sconosciute.

L’unico che salutavo con deferenza era il professor Ernesto Cremona, mio insegnante, studioso della lingua piacentina e filologo di un dialetto assai difficile da interpretare. C’erano personaggi che mi affascinavano profondamente; ricordo Padre Felice da Mareto, la statura imponente, una barba biblica e i sandali senza calze, estate o inverno che fosse. Aveva svolto un importante lavoro sulla “Bibliografia generale delle antiche province parmensi” e quell’enorme volume era spesso appoggiato su uno dei tavoli in cui sedevamo. Lo sfogliavamo con attenzione per non sciuparlo, sembravamo bambini davanti a un nuovo giocattolo.

E ancora, il professor Vittorio Anelli (che avrei conosciuto da assessore alla Cultura tra il 1994 e il 1998), insegnante ma soprattutto intellettuale molto rigoroso e attento, i cui articoli venivano pubblicati sul Bollettino Storico Piacentino. Un giovane Corrado Sforza Fogliani, autore di un lungo e articolato lavoro sulla vita piacentina giorno per giorno tra il 1859 e il 1883 con la collaborazione di Maria Antonietta De Micheli, anch’essa spesso in biblioteca. Si sarebbero poi aggiunti anche altri volumi con la descrizione dei fatti e degli eventi della vita della città fino al 1899. gli studiosi don Pio Marchettini e monsignor Giuseppe Boiardi, lo storico Fausto Fiorentini, la mitica Carmen Artocchini che su tradizioni e folklore ha scritto libri importanti; si vedevano anche il critico cinematografico Giulio Cattivelli, il professor Bruno Adorni e il senatore Alberto Spigaroli. Qualcuno parlava di Giuseppe Berti e di Emilio Ottolenghi. Altri tempi.

E ancora, ho qualche barlume sulla presenza del conte Emilio Nasalli Rocca, autore di innumerevoli saggi sulla storia piacentina, direttore della Passerini Landi fino al giorno in cui venne a mancare improvvisamente nel 1972 e c’era chi mi parlava di Stefano Fermi e di Attilio Rapetti il cui schedario era utilissimo per redigere relazioni sulla Piacenza tra l’Otto e il Novecento. Potrei aggiungere altre figure ma rischierei di perdermi in un passato lontano, nel quale, forse, mi sto già perdendo. La sacralità della Passerini Landi non veniva certamente messa a repentaglio dalla presenza di noi studenti intimoriti da quell’aura di solennità tra manoscritti allineati negli scaffali che arrivavano fino al soffitto ma blasfemi quando sfogliavamo la “Gazzetta”, il “Guerin Sportivo” diretto da Gianni Brera, il “Corriere” dell’era di Piero Ottone e “il Manifesto” che non mancava mai agli attivisti del Movimento Studentesco; il tutto tra un testo di filosofia e un dispensa sull’ideologia marxista tanto di moda allora, in quel tempo impregnato di lotta di classe e di cultura operaista.

Gli studenti di quegli anni, hanno avuto il privilegio di far parte di un mondo inimmaginabile oggi: ho in mente quando il dottor Manfredi mi diede l’opportunità di avere i libri a prestito dopo la presentazione da parte del relatore della mia tesi di laurea; mi sembrò di sognare soprattutto perché in casa di libri se ne vedevano pochi, venivo da una famiglia operaia e coniugare i bisogni primari con le esigenze del consumismo che allora cominciava a incidere nei bilanci familiari, non era semplice. Fu comunque una stagione importante della mia vita, un tempo nuovo seppur vissuto nella classicità della Passerini Landi, un tempo in cui capii che avrei voluto studiare, leggere tanto e scrivere se fosse stato possibile. A quel mondo e a quelle persone oggi fuori tempo massimo come tanti di noi, devo molto.

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