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La classifica musicale del 2020: venti artisti da (ri)ascoltare

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Giovanni Battista Menzani ci propone la sua immancabile classifica musicale di fine anno: un 2020 sulle note da scorrere fino a fondo pagina o da ascoltare grazie alla playlist di Spotify. Per riascoltare le hit di questi mesi o scoprire quello che abbiamo perso.

20.
BUILT TO SPILL – “Plays the songs of Daniel Johnston”
Opera meritoria di per sé, quella di recuperare le songs bislacche e asimmetriche del cantautore più improbabile di tutti, Daniel Johnston (con il tempo diventato oggetto di culto). Che poi, in questa versione risultano più accessibili e meno intellettuali.

19.
MAKAYA McCRAVEN & GIL SCOTT-HERON – “We’re New Again – A Reimagining By Makaya McCraven”
In questo caso, invece, non si tratta di cover. McCraven, astro nascente della scena jazz di Chicago, re-arrangia (anzi: re-immagina) a suo modo l’album testamento di Heron, uscito dieci anni fa.

18.
BLAKE MILLS – “Mutable set”
PINEGROVE – “Marigold”
Due collezioni di piccole gemme acustiche ed emozionanti. “Emo-folk”, ha scritto la critica parlando di Pinegrove: Una collezione dal valore inestimabile. Blake Mills è un chitarrista assai ricercato (collabora con Dylan, Perfume Genius e la Apple, per restare ad artisti qui presenti). Pizzica le corde come Drake o Martyn, ma non disdegna le ballate al pianoforte: si ascolti “Summer all love”, da lui stesso paragonata alla mitica “Androgynous” dei Replacements (chissà perché, poi).

17.
YOUNG JESUS – “Welcome to the conceptual beach”
Altra chicca misconosciuta, stavolta da Los Angeles. Lunghe sessions tra psichedelica e freejazz, loro citano tra i loro mentori Antony & the Johnsons (ora Ahnonhi) e Jeff Buckley. Si dice siano imperdibili dal vivo, con performance lunghe e improvvisate, e ogni volta diverse. Li vedremo anche qui, quando si potrà?

16.
COLAPESCE & DIMARTINO – “I mortali”
In un anno non particolarmente felice per la scena italiana, e le ragioni sono in parte note, la nostra scelta va sull’album co-intestato a questi due sinceri e dolci cantautori siciliani, talmente dolci da rendere romantica persino la storia di Rosa e Olindo. Ma non mancano di graffiare, come nell’iniziale “Il prossimo semestre”: “Ci vuole una hit, ci vuole una mina”/”Ecco, vorrei scrivere per Mina”, o nel singolo “Cicale”: “Paese che vai/stronzi che trovi”. Quest’ultima, pare, è stata scartata da Sanremo 2020, ma nel prossimo marzo ci saranno anche loro nel nuovo Festival versione Indie.

15.
BOB DYLAN – “Rougn and rowdy ways”
BRUCE SPRINGSTEEN – “Letter to you”
Il 2020 è stato un anno con tanta America, nel bene e nel male: noi vogliamo ricordare il sorriso di Kamala Harris dopo la vittoria. Pare cosa buona e giusta, poi, omaggiare qui anche la saggezza antica e l’immenso mestiere dei suoi due più grandi cantori. Staranno nel loro pantheon, insieme a Steinbeck e Faulkner.

14.
CARIBOU – “Suddendly”
Produttore e DJ canadese, Daniel Victor Snaith in arte Caribou da anni propone un’elettronica “umana”, caleidoscopica e tutt’altro che ostica e ripetitiva. E da anni non sbaglia un colpo.

13.
GRIMES – “Miss Anthropocene”
La canadese Claire Elise Boucher è forse nota al grande pubblico per la sua relazione con Elion Musk – vero o presunto nuovo guru di un’epoca senza grandi idee – e per il nome impronunciabile del loro piccolo e sventurato figlio, X Æ A-Xi, dopo che l’anagrafe californiana si è rifiutata di registrare i numeri arabi della prima versione, che era X Æ A-12. In realtà, il suo è un disco di pop elettronico e intelligente (e sempre meno dark).

12.
BARTEES STRANGE – “Live forever”
YVES TUMOR – “Heaven to a tortured mind”
Se l’orgoglio black è in vetta alla classifica con il caso discografico dell’anno, non mancano alternative di assoluto livello. Bartees Leon Cox, cresciuto in Oklahoma ma nato a Ipswich, debutta a marzo con un EP di cover dei National, e qualche mese dopo ecco un disco notevole, tra jazz e hiphop, indie ed elettronica. Yves Tumor – nero e omosessuale in Tennessee – propone un sapiente e originale crossover tra soul e trip hop, dance e rumorismo.

11.
ÓLAFUR ARNALDS – “Some kind of peace”
L’ultima opera di questo compositore islandese, di chiara formazione classica, è una riflessione intima e a tratti amara sul lockdown di inizio anno.

10.
KELLY LEE OWENS – “Inner song”
BEATRICE DILLON – “Workaround”
Quest’anno l’elettronica è femmina (ci scusi perdoni Oneothryx Point Never, che stavolta è fuori dai venti: ma è in buona compagnia, non c’è spazio nemmeno per King Krule, Sufjan Stevens e Fleet Foxes). La gallese Kelly Lee Owens predilige techno e atmosfere sognanti, in reazione a un periodo cupo e turbolento nella sua vita privata; la Dillon, londinese, è una studiosa del folk aperta alla contaminazione con ritmi africani e caraibici, alla musica da camera e culture club, loop, bites e violoncelli: “Workaround” potrebbe arrivare dal Congo o da Saturno, è stato scritto.

9.
BILL CALLAHAN – “Gold record”
MATT BERNINGER – “Serpentine prison”
MARK LANEGAN – “Straight songs of sorrow”
Tre grandi ex della scena indie-rock a cavallo dei due secoli – degli Smog il primo, dei National il secondo, degli Screaming Trees il terzo – oltre che tre grandi voci. E tre ottimi dischi, da non perdere per nessuna ragione. Una lode particolare per Lanegan, alla sua veneranda età. Callahan ormai non è più una sorpresa, ha scritto una manciata di dischi imprescindibili.

8.
BEN WATT – “Storm damage”
L’ex Everything but the girl torna dopo un lungo silenzio al folk-jazz degli esordi, che lo avevano visto collaborare (tra gli altri) con Robert Wyatt. Classe e misura, introspezione e nostalgia: “Thought I had a degree of resistance/But look at me, seeking assistance”.

7.
MOSES SUMNEY – “Grae part I e II”
Forte di un debutto molto apprezzato (l’intimo e minimale “Aromanticism”, 2017), questo ragazzo originario del Ghana – ma californiano d’adozione – sembra poter riscrivere di sana pianta la musica nera contemporanea. Album doppio, monumentale, molteplice (“I insist upon the recognition of my multeplicity”: pare un omaggio al Calvino delle lezioni americane), ricco, denso, a tratti barocco… Sumney non è certo uno che si risparmia.

6.
FONTAINES D.C. – “A hero’s death”
I ragazzi irlandesi avevano l’arduo compito di replicare l’enorme successo di “Degrel”, uno dei must del 2019, e ci riescono con un album più lento e riflessivo, dall’andatura caracollante e aale volte trascinata. I D.C. (sta per Dublin City) sono la punta di diamante di una scena, quella del post punk britannico (isole comprese), che comprende anche gli ottimi Sleaford Mods e i Cool Greenhouse, e che molto deve a Damon Albarn, Paul Weller e Marl E. Smith dei Fall (oltre che allo spoken word di Lou Reed).

5.
JYOTI – “Mama, you can bet!”
Scoperto quasi per caso, o forse grazie a Pitchfork (sempre sia lodato), questo album dalle sonorità jazz non è mai uscito dalla nostra personale heavy rotation. Fateci sapere, su.

4.
PERFUME GENIUS – “Set my heart on fire immediately”
Mike Hadreas è una nostra vecchia conoscenza: nel 2017 il suo fantastico “No shape” è stato disco dell’anno per PiacenzaSera. Eccessi barocchi e glam -“distorsioni croccanti, sbuffi sintetici, svolazzi d’archi, fiati pastorali, arazzi intessuti da corde antiche”, scrive di lui OndaRock; e lui stesso dice: “volevo sentirmi più aperto, più libero e più spiritualmente selvaggio” – e tanta bravura, anche nei pezzi apparentemente più innocui e pop (“Without you”, “On the floor”).

3.
FIONA APPLE – “Fetch the bolt cutters”
Anch’ella già premiata da PCS (“The idler…”, miglior disco del 2012). “Fetch the bolt cutters” è un disco elegante e sofisticato, insomma un altro capolavoro, molto chiacchierato tra l’altro su tutti i media per le tematiche affrontate (relazioni finite, molestie, bullismo, solidarietà tra donne: “Ladies, ladies, ladies”). Peccato per la cover, brutta assai.

2.
WAXAATCHEE – “Saint Cloud”
Alfieri di un alt country incline al lo-fi, che fossero bravi si sapeva da parecchio. Questa volta, tuttavia, non sbagliano niente, ma proprio niente, e con “Fire”, “Lilacs” e “Arkadelphia” ci regalano le più belle ballate dell’anno. Senz’altro quelle più ascoltate da chi scrive, e per distacco. Per una volta, è il caso di dirlo (non ce ne voglia il vecchio Neil Young): Sweet home Alabama.

1.
SAULT – Untitled (“Black is”)
SAULT – Untitled (“Rise”)
Il misterioso collettivo dei SAULT, di stanza a Londra ma di origine e composizione incerta, è senza dubbio il caso discografico dell’anno. Quattro dischi in diciotto mesi, questi due nel 2020 (“Rise” è recente, “Black is” è uscito in marzo). Uomini e donne senza volto, a eccezione di un paio di cameo illustri (il grande Kiwanuka), e dischi senza nome. Puro distillato di musica e di orgoglio black (“Black woman, black woman angry, black man, black man angry”), militanza e ispirazione, funky e groove, elettronica e soul. In memoria di George Floyd.

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