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La popolazione italiana, l’immigrazione e l’emergenza sanitaria

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L’emergenza sanitaria con il suo carico di morti ha tolto all’opinione pubblica l’ozioso dibattito sui pericoli dell’immigrazione, riportandolo ad una più ragionevole civile convivenza, coinvolgendo uno dei veri rischi per la nostra società: la questione demografica.

Il recente rapporto dell’ISTAT raffigura un’Italia sempre più vecchia, che perde popolazione nonostante l’apporto degli stranieri. Un Paese che nell’arco di una generazione ha visto rovesciarsi il rapporto bambini-anziani e l’afflusso di persone provenienti da altri Paesi ha solo in parte contenuto tale perdita. L’elevata mortalità provocata dal Covid, anche se prevalentemente riferita agli anziani non può non rimescolare qualitativamente la composizione sociale; i giovani di fronte al fenomeno sanitario ed alle sue conseguenze economiche sono sempre meno portati a scelte di fecondità. Su di essi infatti si concentrano le maggiori instabilità del mercato del lavoro, mettendo a rischio oltre all’occupazione anche la salute e il benessere, e li spingono ad espatriare.

Il livello di istruzione degli italiani poi dimostra segni di arretratezza; non toccano il 50% i giovani in possesso di un titolo di studio superiore, comprese le qualifiche professionali; l’analfabetismo non è ancora del tutto sconfitto (quello di ritorno non è nemmeno affrontato alle diverse età) e la dispersione scolastica è alta, così come si diffonde la povertà educativa. Quale futuro ?

Il dossier sull’immigrazione (IDOS 2020) segnala un aumento progressivo della cittadinanza italiana, anche se le modalità di conseguimento per giovani e adulti è tuttora difficile, ed un aumento di nuclei familiari che tendono a stabilizzarsi nel nostro Paese. I minori nati in Italia infatti (due terzi che frequentano le scuole) non hanno più nessuna esperienza di migrazione, ma l’aria che ancora si respira non è quella della proficua integrazione, alla ricerca del capro espiatorio, che si accentua con la pandemia, senza sottrarsi allo sfruttamento degli immigrati.

Il 33,5% degli stranieri ha un’elevata istruzione, spesso hanno competenze superiori rispetto ai lavori che svolgono; quasi il 10% delle imprese autonome sono gestite da loro e non hanno conosciuto grosse crisi nemmeno durante il Covid, al contrario di quelle italiane. Più lavoro vuol dire più reddito nazionale e meno debito; l’INPS, secondo Boeri , spende ogni anno circa 7 miliardi per prestazioni sociali agli immigrati e ne incamera 14 di contributi. Essi infatti sono molto più giovani degli italiani e contribuiscono per più tempo al finanziamento delle pensioni per tutto il nostro Paese. Uno studio di EURICSE ha evidenziato che nella provincia di Trento ogni euro speso per l’accoglienza ha generato quasi due euro per il sistema economico trentino, mentre i costi della mancata accoglienza superano largamente i benefici.

Gli immigrati a noi servono, si dice dagli imprenditori veneti, ma non solo, “cerchiamo giovani per le nostre aziende e non li troviamo”. A Milano i signori Hu hanno superato i Rossi, molte donne cinesi diventano imprenditrici e titolari di negozi, oltre che madri. Famiglie nelle quali si parlano diverse lingue oltre all’italiano; si sono organizzate in associazioni che gestiscono il business degli italo-cinesi di seconda generazione. Durante il Covid hanno contribuito finanziando importazioni di mascherine e altro materiale sanitario da donare ai milanesi, ed alle imprese cinesi la mano d’opera interna alla comunità non basta più.

Il governo del processo migratorio è da attribuire agli Enti Locali, com’era stato sperimentato con successo dai progetti SPRAR; l’intervento a gamba tesa dello Stato ha disorientato sia gli immigrati, portandone tanti alla clandestinità, anziché all’integrazione, sia i soggetti del territorio per quanto riguarda i luoghi e i modi della custodia e dell’impegno sociale degli stranieri. Nei più recenti sondaggi si nota che l’immigrato non fa più paura, molto meno di due anni fa. Diamanti evidenzia che le preoccupazioni dei cittadini si concentrano sull’economia e sul lavoro, nonché sull’inefficienza e la corruzione politica. L’immigrazione non è dunque più considerata un fenomeno transitorio, come negli anni ’70, ma un elemento costitutivo della nostra società sempre più multiculturale.

Anche la popolazione scolastica italiana diminuisce ed i giovani stranieri aumentano: la diversità culturale è sempre più considerata nei curricoli e nelle attività che integrano la vita della scuola. Ancora l’ISTAT ci dice che gli studenti stranieri sono aumentati nell’ultimo decennio del 27,3% e rispetto al decennio precedente del 425,9%, frequentano scuole che immettono direttamente nel mercato del lavoro, al contrario degli italiani che preferiscono i licei, polarizzando gradualmente i dato sull’occupazione. In generale la maggior scolarizzazione dei figli di immigrati è nelle regioni con un più alto sviluppo economico.

Occorre gettare dei ponti tra le skills maturate nelle regioni di provenienza e le opportunità professionali ed esistenziali che dischiuderà la nuova terra di approdo, con un orientamento formativo e professionale dei migranti che esplori i sé possibili di fronte ai mutamenti del mercato del lavoro. Nelle relazioni tra persone di culture diverse non valgono solo le parole efficienza e progetto dell’individuo, ma anche una concezione olistica della persona che valorizza l’appartenenza e la fedeltà al gruppo. Sono gli individui che entrano in contatto tra di loro ma senza dimenticare il contesto sociale e storico che influenza le singole personalità. Il compito dell’educazione interculturale dunque consiste nella capacità di confrontarsi con la diversità, impedire una fissazione rigida delle identità contrapposte, collaborare nella costruzione della convivenza.

La pandemia ha messo a dura prova una medicina transculturale, nonché le difficoltà che gli immigrati incontrano nell’incrocio tra domanda e offerta sanitaria. Il bisogno di assistenza è un fatto relazionale che si esprime in base all’identità culturale di ognuno. Ai medici interessano i sintomi e spesso trascurano la definizione emotiva che i pazienti danno del proprio malessere; l’organizzazione sociale secondo principi liberali vede nelle restrizioni imposte per il contagio limitazione ai diritti soggettivi dei cittadini, generando maggiore intolleranza, cosa che non avviene in una comunità in cui già sono negate delle libertà che si dimostra più accondiscendente rispetto alle indicazioni delle autorità. La difesa dei diritti comunque consente di tutelare i più deboli anche contro le culture di appartenenza.

L’uso di categorie culturali interpretative è positivo se viste in modo dinamico e passibile di evoluzione e mutamento, la soluzione consiste nel pensare l’altro come fornito di un’identità in continua evoluzione e noi allo stesso tempo come diversi ma anche simili (Caputo 2012). Le malattie fanno parte di storie di vita, devono entrare a costituire reti di collaborazione tra strutture ospedaliere, servizi sociali e ogni altra risorsa presente sul territorio, per un trattamento da eguali nel rispetto delle differenze. Anche per questo andranno ricostruite relazioni sociali di prossimità, amicizia, fiducia: dopo la pandemia non sarà più come prima, da che vorremmo trasformare gli altri in noi non ci accorgiamo che già gli altri siamo noi (Diamanti 2020).

di Gian Carlo Sacchi

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