Parole nella pietra, le antiche iscrizioni ed epigrafi sui palazzi di Piacenza L’ITINERARIO

Le pietre raccontano… Frammenti di Storia locale nelle iscrizioni delle case e dei palazzi di Piacenza.

Accompagniamo i lettori per le vie del centro storico di Piacenza per una visita culturale molto speciale. Antiche iscrizioni ed epigrafi appaiono sugli angoli di alcuni palazzi storici. Una viva testimonianza di un passato, di una storia che ancora oggi ci appartiene. In questo viaggio saremo accompagnati dall’architetto Manrico Bissi, appassionato di storia, sia di carattere generale sia di ambito locale, si è specializzato nello studio degli edifici storici e nella ricerca documentale e archivistica che permette di rivelarne le origini e le trasformazioni. Dedito alla divulgazione della storia urbanistico-architettonica piacentina attraverso pubblicazioni specifiche, Bissi partecipa inoltre all’attività culturale e didattica del Gruppo di Ricerca Piacenza Romana e dell’Associazione Culturale Archistorica, della quale è presidente.

Architetto Bissi, quello che stiamo per compiere è un tour culturale tra le vie del centro cittadino. Stiamo per conoscere ed esplorare con lei quei piccoli particolari che sono davanti a chiunque transiti davanti a quel palazzo o in quel vicolo. Parole ricche di significato, scolpite sul granito e che racchiudono vicende politiche e sociali della città.

«Verba volant, scripta manent», «Le parole si perdono, le scritte restano». Così recita un  proverbio latino, con il quale si celebra il primato della memoria scritta, oggettiva e sempre riscontrabile, su quella orale, ben più effimera ed evanescente. Fin dalle più remote civiltà, la scrittura divenne il mezzo indispensabile per conservare una memoria collettiva importante, o per rendere concreta e attuativa una prescrizione giuridica, commerciale o religiosa; proprio per questo, le scritture più importanti furono incise su pietra o su bronzo, per poi essere esposte sui principali edifici pubblici, con lo scopo di rendere al tempo stesso eterne e ben visibili le informazioni che vi erano riportate. Ciò accadde naturalmente anche a Piacenza, dove numerose targhe, iscrizioni ed epigrafi di varia foggia e tipologia sono ancora oggi visibili sui muri di case e palazzi di indubbio pregio storico.

Partiamo dal castello del conte Ubertino Landi, quello che oggi è il Palazzo del Tribunale in vicolo del Consiglio.

Un’antichissima iscrizione medievale era ancora ben leggibile, fino al primo Novecento, sulla grande pietra cantonale che segna lo spigolo del Palazzo del Tribunale, in corrispondenza del gomito stradale di vicolo del Consiglio. Il testo, ormai illeggibile a causa dell’usura della pietra, rimandava probabilmente all’antico “Castrum Comitis” (il “castello del Conte”), ossia il palazzo fortificato appartenuto nel secolo XIII al conte Ubertino Landi, valoroso condottiero e capo indiscusso dei ghibellini piacentini. Con l’affermazione del dominio guelfo su Piacenza, il conte Landi dovette lasciare la città, e il suo palazzo fu in gran parte demolito per ordine del Libero Comune: due secoli dopo, sulle rovine del castello i Landi ricostruirono il loro nuovo palazzo quattrocentesco, nel quale si trova l’attuale sede del Tribunale.

Generico marzo 2021

Ci spostiamo in Piazza Sant’Antonino. Qui una targa che recita “case profanate” nei chiostri del Duomo

«AVVISO. PER ORDINE DELLA SAG.[ra]. CONGREGAZIONE DELL’IMM.[uni]TA’ ECC.[lesiastica]. DIRETTO A MONSIG.[nor]. VESC.[ovo]. DI PIACENZA SOTTO LÌ 27 MARZO 1717 SI SONO DICHIARATE PROFANATE QUESTE CASE E SITI ADIACENTI COME PIÙ DIFFUSAMENTE APPARISCE DAGLI ATTI DELLA CANCELLARIA VESCOVALE IL DÌ 15 APRILE 1717.». Questo decreto, promulgato nel 1717 dall’allora vescovo di Piacenza mons. Giorgio Barni, si trova scolpito a chiare lettere su due antiche targhe (quasi identiche nel contenuto riportato), poste rispettivamente nel vicolo dei Chiostri di Sant’Antonino (civico n°13) e in angolo alle due piazzette dei Chiostri del Duomo. Nei primi anni del Settecento questi edifici erano infatti di proprietà ecclesiastica, e beneficiavano dell’immunità: ogni malvivente ricercato dalla giustizia laica poteva quindi rifugiarsi al loro interno, ottenendo la protezione della Chiesa ed evitando così l’arresto e la condanna. Tale consuetudine generò grossi problemi, finché il vescovo Giorgio Barni decise di intervenire; nel 1717 ordinò quindi che le case dei chiostri fossero “profanate”, ossia letteralmente “rese profane”, è cioè private della loro precedente immunità ecclesiastica: da allora in poi, nessuno avrebbe più potuto trovarvi asilo dalla giustizia laica.

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Percorriamo via Sant’Antonino e svoltiamo in via Felice Frasi. Ci fermiamo all’angolo con via Sopramuro: l’antica “Porta Aenea” romana

Come suggerito dalla sua stessa toponomastica, l’attuale via Sopramuro ricalca il percorso delle antiche mura romano-altomedievali, talvolta emerse lungo la strada in occasione di scavi e cantieri. Lungo il loro percorso, le mura erano intervallate da torri e porte fortificate, una delle quali si trovava nell’attuale incrocio tra la stessa via Sopramuro e via Felice Frasi: si trattava dall’antica “Porta Aenea” (in latino), ovvero la “porta bronzea”, posta a guardia della strada per la Val Nure e così chiamata forse per il materiale di cui erano rivestiti i suoi scuri. Dell’antica porta non sussistono tracce archeologiche, ma la sua presenza è comunque ricordata da una piccola lapide in latino, collocata fin dal Settecento sullo spigolo del palazzo nell’angolo sud-ovest del crocicchio. L’epigrafe, ormai quasi illeggibile, riporta il seguente testo: «HIC FUIT ANTIQUAE URBIS MURUS ET AENEA PORTA ET SUPRA MURUM HIC ERIGITUR».

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Ci dirigiamo in piazzetta Tempio, più precisamente sotto Palazzo Scotti, oggi sede della Prefettura di Piacenza. Volgiamo lo sguardo all’insù, al balcone del Palazzo del Governo.

Molte iscrizioni onoravano e celebravano il prestigio delle grandi famiglie nobiliari, e per tale ragione le troviamo ancora oggi ben visibili sui muri e sulle modanature architettoniche dei rispettivi palazzi. Significativa, in tal senso, è l’iscrizione leggibile sotto al balcone del Palazzo Scotti di Vigoleno, oggi sede della Prefettura: «PHILIPPUS SCOTTUS MARCHIO VIGOLENI EXTRUEBAT 1723». Un testo breve, semplice, scritto in lingua latina, nel quale viene ricordato il mecenatismo del marchese Filippo Scotti, signore di Vigoleno, promotore della ricostruzione settecentesca del palazzo di famiglia. Sul medesimo sito sorgevano già, secoli prima, le antiche case di Alberto I Scotti, signore di Piacenza tra il 1290 ed il 1313. Sconfitto dalle truppe dei Visconti di Milano, lo Scotti fu privato dei suoi beni e le sue case furono abbattute: sulle loro rovine, riacquistate dagli Scotti, prese avvio nel 1717 la ricostruzione del grande palazzo attuale, nel quale si legge mano dell’architetto barocco Ignazio Cerri.

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In via Santa Eufemia, nel Palazzo Rota Pisaroni, attuale sede della Fondazione di Piacenza e Vigevano, si trova un balcone sul quale possiamo notare un cartiglio scultoreo.

Tra le antiche iscrizioni nobiliari si deve includere anche il cartiglio scultoreo collocato sotto al balconcino interno di Palazzo Rota-Pisaroni, attuale sede della Fondazione di Piacenza e Vigevano. Il testo, risalente al 1762 e scritto ancora una volta in Latino, celebra il costruttore dell’edificio, il ricco mercante Giuseppe Rota, di lì a poco nominato conte: «D.(ominus) JOSEPH ROTA AEDEM HANC A FUNDAM.(entis) EREXIT ORNAVIT PERFECIIT A.(nno) MDCCLXII. (tradotto: Il signore Giuseppe Rota costruì questo edificio dalle fondamenta, lo abbellì e lo finì nell’anno 1762)». In realtà, sul medesimo sito si trovava già un palazzo preesistente, che i Rota avevano acquistato nel 1749 per poi riadattarlo con forme più eleganti: la famiglia, di origine borghese, si era arricchita con il commercio dei cordami nel popolaresco quartiere di Borghetto. Ceduto dai Rota nei primi anni dell’Ottocento, il palazzo fu acquistato dalla nota contralto piacentina Benedetta Rosmunda Pisaroni (1793-1872), diva internazionale del canto lirico ottocentesco e musa prediletta di Rossini.

Concludiamo questo viaggio con l’enigmatica frase “Forse che sì… Forse che no…” che notiamo sulla facciata di un palazzo all’angolo tra le vie Campagna e San Tommaso.

Tra le tante antiche iscrizioni che possiamo ancora leggere sui muri del centro di Piacenza, una in particolare conserva un indubbio fascino, quasi misterioso: si tratta di una piccola targa marmorea, collocata sull’angolo dell’antico palazzo Paveri Fontana-Anguissola, all’incrocio tra via Campagna e via S. Tomaso. [fig.8] La scritta riporta infatti il motto araldico dei Gonzaga: «FORSE CHE SI’, FORSE CHE NO», ricorrente nelle decorazioni del palazzo ducale di Mantova. Non si conosce l’esatta datazione della scritta, che appare comunque piuttosto antica; l’ipotesi più probabile è che possa risalire al 1521, anno in cui nel vicinissimo palazzo Scotti da Fombio (attuale Collegio Morigi in via G. Taverna) fu ospitato proprio il duca di Mantova Federico II Gonzaga, non a caso figlio del marchese Francesco II che aveva adottato questa frase come suo personale motto araldico.

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