“Non basta il vaccino per uscire dalla ‘sindemia’ covid, serve un nuovo slancio per riprogettare il futuro” foto
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Più impauriti, stanchi, scettici nei confronti della scienza e aggrappati al presente, perché il futuro fa troppa paura.
Ci inquadra così la ricerca svolta, nell’ultimi 13 mesi su un campione di 5mila persone in tutta Italia, dal centro di ricerca EngageMinds HUB dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Già a marzo 2020, l’EngageMinds HUB si è attivato con una prima rilevazione a cinque giorni dal “paziente 1”. E la ricerca non si è più fermata: a maggio, settembre e dicembre 2020 e poi state svolte altre rilevazioni in queste settimane, dopo il primo stop all’utilizzo del vaccino AstraZeneca. Due le direttrici di questo monitoraggio, i comportamenti di salute e i consumi alimentari, che si sono allargate fino a sondare i diversi effetti del covid nella gestione della nostra vita.
A presentare i risultati di questa complessa attività la professoressa Guendalina Graffigna, Ordinario di psicologia dei consumi alla Cattolica di Piacenza e direttore dell’EngageMinds HUB, e Serena Barello e Mariarosaria Savarese del Centro di ricerca della Cattolica, insieme a Claudio Bosio, Ordinario di psicologia e presidente del Comitato Scientifico di EngageMinds HUB; Lorenzo Morelli, Ordinario di microbiologia e direttore del Distas (Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari per una filiera agro-
“Covid 19, tra i tanti impatti che ha avuto, ha portato all’ampliamento dei modelli di lettura delle pandemie e emergenze sanitarie” ha sottolineato la professoressa Guendalina Graffigna, parlando più che di pandemia di sindemia. Covid non ha fatto solo ammalare i nostri corpi e portato quasi al collasso il nostro sistema sanitario, ma sta compromettendo anche la nostra economia e il nostro benessere psicofisico. “Per 10 mesi (fino all’arrivo dei vaccini, ndr) a combattere il covid è stato chiamato in causa il cittadino, al quale è stato chiesto di modificare i suoi comportamenti per il benessere globale – continua -, mettendo in evidenza come stia diventando importante la visione community based della prevenzione delle pandemie. C’è il coinvolgimento attivo del cittadino, che non è solo l’utente finale del sistema sanitario ma ne è partner attivo”. Ma a che punto siamo oggi? E’ quello che cerca di fotografare l’indagine, che ha monitorato ogni momento snodo della gestione della pandemia, interpellando 5mila cittadini su un campione rappresentativo della popolazione italiana.
Di sicuro siamo più fragili emotivamente e psicologicamente, un disagio che nell’arco di 12 mesi (da marzo 2020 a marzo 2021) è aumentato del 30%, dice Serena Barello di EngageMinds HUB, così come la preoccupazione per l’emergenza sanitaria e il sentirsi a rischio di contagio (+17%). Il senso di responsabilità, su questo fronte, è sempre molto elevato, con un “calo dell’attenzione però al rientro delle ferie estive”. Nell’ultima fase sono in aumento il senso di ansia e depressione, così come la solitudine, una sensazione in crescita negli ultimi mesi (percepita in maggioranza tra donne e di età superiore ai 60 anni). Forte anche la preoccupazione dal punto di vista economico: rispetto al 2019, gli intervistati si sono sentiti globalmente più a rischio, sia per la situazione economica del paese che della propria famiglia.
La fiducia, o meglio la sfiducia, è un alto tema focale dell’indagine affrontato da Mariarosaria Savarese del Centro di ricerca della Cattolica. Quella nei confronti del sistema sanitario e delle istituzioni ha “raggiunto un picco negativo negli ultimi 6 mesi”. In calo anche quella nei confronti della ricerca scientifica, soprattutto tra donne e giovani. Incrinato anche il rapporto con il medico di famiglia, “quasi come se si fosse rotto un patto, soprattutto tra maggio e settembre”. Cala anche – negli ultimi mesi – la fiducia nell’uscita dalla crisi sanitaria, mentre aumenta la capacità di dare valore al presente, una situazione che ha ripercussioni anche sui consumi: oltre un terzo degli intervistati dice che cambierà stile di consumo.
Fabrizio Pregliasco, direttore Sanitario dell’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, elogia la ricerca perché traduce in numeri oggettivi le tante difficoltà che ci governa deve affrontare. “Tra gli elementi che mi preoccupano, davanti alle aperture che sono molto attese, il calo di fiducia nei confronti del sistema sanitario e delle istituzioni. Fiducia che deve essere rilanciata, perché in quello che accadrà nel prossimo futuro – con questo virus dovremo convivere a lungo – giocheranno due aspetti: la velocità nella vaccinazione e la continuità di continuare a gestire questo nuovo galateo (indica la mascherina, ndr), nel rapporto con le persone. Un liberi tutti come lo scorso anno non ci porterà a una convivenza civile con questo virus, che rimarrà per alcuni anni; occorre invece mantere alta l’attenzione con senso di responsabilità da parte di tutti. Sarà la sfida del prossimo futuro”.
Andrea Ghiselli, Presidente Sisa (società italiana scienze dell’alimentazione), si è invece concentrato su come il virus abbia cambiato rapporto con il cibo, nel bene e nel male. “Questo periodo – dice – per ansia e noia, per le ore passate sul divano, ha comportato chiaramente un cambiamento nelle abitudini alimentari. Per molti ha significato aggiungere un pasto: circa il 75% dei lavoratori era abituato a portarsi da casa qualcosa di veloce da mangiare al lavoro. Ora invece dobbiamo cucinare anche il pranzo, il che può significare maggiore consapevolezza nei confronti della nostra alimentazione ma non solo. Abbiamo visto, infatti, un aumento nei consumi di alimenti ‘buoni’, come olio di oliva, frutta e verdura, così come di comfort food. La mancanza di contatti con i coetanei, nei giovani ha portato a una maggiore incidenza di disturbi comportamenti alimentari, con un aumento del 30% dell’anoressia soprattutto nelle ragazze. L’adulto invece in questi ha preso peso, o almeno così sostiene il 48%, dai 2 ai 4 kg in più. La sensazione è quella di essere appensantiti. Mangiare è scritto nel dna: non si può colpevolizzare un individuo perché mangia cibi ad alta densità calorica. E’ una legge naturale: si tende a consumare il massimo dell’energia possibile con il minimo della spesa. Quello su cui dobbiamo lavorare è l’educazione alimentare, è il filtro per tenere a bada l’istinto, e far capire quali a patologie possa portare il mangiare in maniera non corretta”.
Lorenzo Morelli, Ordinario di microbiologia e direttore del Distas (Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari per una filiera agro-
A tirare le fila dell’incontro Claudio Bosio, Ordinario di psicologia e presidente del Comitato Scientifico di EngageMinds HUB. “Per riprendere il rapporto tra scienza e sapere comune, una volta era un po’ più semplice organizzare una trasmissione di conoscenze dall’uno all’altro piane, il rapporto prima era asimmetrico. Verticale”. Ora si è tutto appiattito in maniera verticale, “nella logica dell’uno vale uno, ma la comunicazione sociale può continuare così? Secondo me no. Ma neppure solo la narrazione medica è la soluzione, la cornice sindemica di covid lo mette in evidenza, facendo emergenze tante istanze diverse e tutte chiedono di essere tematizzate e gestite nella comunicazione”.
Occorre fare presto, perché le risorse “di engagement stanno calando, i cittadini hanno meno capacità di risposta e iniziativa per saper gestire questa situazione, che non si risolve con il vaccino, ma con una buona comunicazione”. Questa condizione di continuo logoramento ci sta portando a una “riorganizzazione del tempo di vita molto focializzata sul presente: abbiamo meno capacità di immaginare il nostro futuro, ma dobbiamo tornare a progettarlo. L’invito che viene da questa ricerca è usare sensibilità e scienza per riattivare la capacità di progettazione di un nuovo modello di vita, diverso dal passato”.
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