“Piccolo prontuario genitoriale per giovani anime in pena”, intervista alla psicologa Silvia Tizzoni

Torniamo al libro, “prontuario” di consigli per genitori e figli. L’improvvisa chiusura tra le quattro mura di casa, che impatto globale ha avuto sull’intero sistema- famiglia e sui suoi componenti? Quanto il Covid è stato detonatore di squilibri già presenti?

Direi che il Covid ha avuto un impatto dicotomico sul sistema familiare: positivo o negativo. Positivo, quando il tempo rallentato e domestico del lockdown ha permesso di coltivare momenti di dialogo tra genitori e figli, attività e spazi di condivisione prima negati per i troppi impegni, propositi lasciati in sospeso. Un effetto di rafforzamento dell’unità familiare, seguito proprio alle chiusure. Ma nella maggior parte dei casi non è stato così, anche perché i ragazzi che venivano nel mio studio problematizzavano la situazione vissuta. E allora immaginiamoci questi adolescenti, con l’impressione di vivere a metà: tra l’ansia di regole sanitarie e sociali, la confusione dei colori regionali, le lezioni da seguire a stento magari su telefono, e la frustrazione di trascorrere in casa lunghi pomeriggi vuoti, forse i loro anni più belli. Cancellate di colpo ogni attività sportiva e ricreativa di sempre, tutto il loro movimento, i giovani si sono ritrovati lontano dai coetanei a condividere spazi e tempi con i genitori, spesso indesiderati e poco comprensibili ai loro occhi. Dall’altra parte i genitori, divisi in mille ruoli tutti da espletare al meglio, tra smart working (che di smart non ha poi molto), lavoro domestico, esplorazione di nuove piattaforme informatiche e accudimento di figli scalpitanti. Anche loro chiusi in casa, senza più pause, senza supporti sociali, formali o informali.

E non dimentichiamo la guerra tra poveri, combattuta senza esclusione di colpi, tra chi ha la fortuna, o sfortuna, dipende dai punti vista, di fare smart working e chi invece lavora ancora fuori casa; per non parlare di chi invece il lavoro non ce l’ha neanche più. É chiaro poi che in un contesto ad alta tensione, una connessione condivisa, uno spazio invaso, ogni piccola mania, diventano occasioni di scontro. Hanno fatto più fatica famiglie particolarmente abituate ad una vasta rete di contatti e attività sociali fuori casa, di colpo costrette a cambiare radicalmente il proprio equilibrio; e naturalmente dove conflitti e mancanze familiari erano preesistenti, la pandemia ha fatto da miccia esplosiva. Dove invece i rapporti erano sereni, il nucleo ha retto meglio alla tempesta.

Nell’alternanza tra interviste agli adolescenti e tue riflessioni che caratterizza il libro, emergono due fenomeni interessanti accentuati dalla pandemia e apparentemente in contrasto: la tendenza, talvolta eccessiva, a puntare il dito contro i giovani e i loro comportamenti irresponsabili, veicolo di contagio; la reticenza da parte di alcuni genitori a definire regole chiare, preferendo essere eterni “amici” dei figli. Come spieghi queste manifestazioni? Sono davvero opposte o hanno una loro continuità?

Sembrerebbero effettivamente opposte, la prima frutto di eccessiva rigidità, la seconda di esasperato lassismo. A un occhio più attento però sono atteggiamenti meno lontani di quel che sembrano, mettendo in luce entrambi una difficoltà di empatia. Sia cercare di comprendere desideri e comportamenti dei giovani da parte degli adulti, sia fornire ai ragazzi regole in base alle quali agire o limitarsi comportano infatti uno sforzo di immedesimazione e dialogo del genitore. Solo mettendosi nei panni del figlio si potrà capire ad esempio fino in fondo l’importanza di una partita aspettata con ansia, o di un’uscita che fa battere il cuore, saltate a causa della pandemia. O ancora di un aperitivo al sabato sera, che magari per quel ragazzo non era stupida movida, come la chiamiamo noi, ma soltanto socialità. Perché giovani lo siamo stati tutti e da adolescenti la famiglia spesso stava stretta, basta ricordarselo. È quindi troppo sbrigativo liquidare tutto puntando il dito contro l’irresponsabilità dei giovani, che naturalmente non possono percepire o ragionare come adulti. Eppure le regole sono indispensabili per crescere, ma darle implica fatica: non basta il no, occorre spiegare il perché di quella decisione, divieto che naturalmente apre la strada a conflitti, incomprensioni e a possibili tentativi di trasgressione della norma. Ecco allora perché anche le regole, se efficaci, sono sempre frutto di uno sforzo di dialogo verso l’altro; non semplici imposizioni fine a stesse. Ed ecco il motivo per cui spesso i genitori, preferendo evitare la fatica di sostenere il conflitto, o il rischio di trasgressione alla regola, scelgono pericolosamente di essere amici dei loro figli.

Non facciamo uno spoiler, ma un chiarimento utile: perché essere amici dei figli è un pericolo?

L’amicizia tra genitori e figli è dannosa perché i ragazzi hanno bisogno dell’autorevolezza genitoriale: per imparare a rapportarsi con gli altri, con sé stessi e con la realtà che li circonda; il rispetto del limite e dei ruoli è fondamentale a questo scopo. Sul momento può sembrare fantastico avere un genitore che, amico e complice, non pone paletti, ma la mancanza di sicurezza che questi atteggiamenti determinano nei ragazzi, si vede con la loro crescita, quando spesso si trovano impacciati in un mondo esterno troppo difficile da affrontare senza un bagaglio di difese. La regola invece funge da stimolo per il giovane, anche quando viene trasgredita: per eluderla bisogna infatti mettersi in gioco trovando possibili alternative, ricorrendo alla propria creatività, facendo i conti con il senso di colpa per aver aggirato il divieto genitoriale: tutti elementi che attivano positivamente risorse e personalità dei figli. Con la Dad ho visto diversi ragazzi scambiare il giorno per la notte guardando serie TV al computer con il tacito assenso dei genitori, timorosi di ferirli in un periodo già difficile. E al mattino rimanere a letto, anziché seguire la lezione, o scombinare completamente l’orario dei pasti per i passatempi in rete. Questo non è accettabile, un limite va dato per il benessere dei giovani.

Altra spina nel fianco, la didattica a distanza. Per molti ragazzi non è solo un problema di connessione e neanche di asocialità…

I ragazzi che ho visto in studio non erano tra quelli contenti di studiare meno. Per loro, motivo di ansia era soprattutto la consapevolezza di formarsi meno e peggio, usufruendo di un apprendimento scolastico di qualità inferiore. Non tanto e solo per l’insegnamento a distanza, quanto soprattutto per la minor preparazione fornita e richiesta dai docenti. Poi certo, c’era la difficoltà di connessione, specie se condivisa in famiglia, la mancanza del confronto in presenza e della socialità con i compagni: ma proprio queste condizioni hanno creato le premesse per una revisione al ribasso degli obiettivi scolastici da raggiungere. E molti adolescenti si sono resi ben conto di perdere qualcosa di importante per il loro futuro. Una ragazza intervistata nel libro dichiara: “La didattica a distanza di bello non aveva un bel niente. Durante la didattica a distanza anche le spiegazioni che normalmente non erano noiose lo erano diventate! All’inizio non andare a scuola era un po’ come una specie di vacanza, sembrava che da un giorno all’altro la vacanza sarebbe finita e saremmo tornati alla normalità, ma quando la normalità è diventata stare chiusi in casa e fare scuola dal computer, non c’era proprio più nulla di allegro”. E un’altra: “Finita la scuola vorrei trovare un lavoro che mi faccia star bene e mi soddisfi, ma per quello bisogna imparare, studiare tanto e avere la possibilità di fare degli stages: ecco perché mi auguro quanto prima che torni un po’ di normalità”!

Dietro alle interviste ci sono quindi storie di ragazzi. Ne ricordi una che ti ha colpito particolarmente, anche non accennata qui?

Mi hanno colpito tutte, sono storie sincere, sentite. Posso dirti che ho visto una ragazza, a dire la verità ti parlo di una tra diverse, vittima di ansia da dissonanza cognitiva. La sua fonte di preoccupazione? L’utilizzo della mascherina. Parlo di dissonanza cognitiva perché la giovane si sentiva divisa e intrappolata tra la regola di indossare i dispositivi di protezione, raccomandata dalla famiglia, imposta dalle norme anti-contagio e acuita dalla paura di infettare i parenti più fragili, e la disinvoltura dei compagni di classe nel dimenticarsi l’importanza di portare la mascherina in modo corretto; in una scuola ancora in presenza tra il primo e il secondo lockdown. Schiacciata tra sistema regolativo e desiderabilità sociale, per cui non voleva certo scontrarsi con i compagni trasgressori, l’ansia comincia quindi presto a farsi spazio nella giovane, diventando sempre più insistente, incontrollabile. La risposta estrema della ragazza per acquietare le proprie paure sarà poi il totale rifiuto dell’ambiente scolastico.

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