Le Rubriche di PiacenzaSera - Le Recensioni CJ

80 anni di Dylan, ecco la nostra playlist per festeggiarlo

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15. “Hurricane”
In un profluvio di archi e di violini, ecco la storia del pugile Rubin “Hurricane” Carter, condannato (ingiustamente) a tre ergastoli per omicidio perché vittima di un pregiudizio razziale: “A Paterson è così che vanno le cose/Se sei nero è meglio non farsi vedere per strada/a meno che tu non voglia accettare la sfida”. Quarantacinque anni prima del #blacklivesmatter.

14. “The times they are a-changin’”
Il nostro brano preferito del primo Dylan, quello acustico e più politico: “Venite madri e padri
da ogni parte del paese/e non criticate quello che non potete capire/i vostri figli e le vostre figlie sono al dì là dei vostri comandi/la vostra vecchia strada sta rapidamente finendo/Per favore spostatevi dalla nuova/se non potete dare una mano/perché i tempi stanno cambiando”. L’inno definitivo degli anni Sessanta.

13. “4th time around”/”Visions of Johanna”
Dal monumentale “Blonde on blonde”, l’album doppio del 1966, il primo album doppio della storia e vetta artistica del nostro, ecco due meravigliose ballate. Nella prima Dylan fa una divertente parodia della “Norvegian wood” di Lennon, brano dichiaratamente dylaniano; la seconda ha un testo che spinse nel 1999 un professore universitario a candidare – per primo, crediamo – Dylan al Nobel per la letteratura (com’è noto, gli fu assegnato nel 2016; ma lui mandò a ritirarlo a Stoccolma l’amica Patti Smith…).

12. “Forever young”
Altro inno, questa volta alla gioventù eterna. Nel 1995 la canta con Springsteen, ma la sua parte è (al solito) stravolta e irriconoscibile: una delle sue peggiori performance vocali, ed è tutto dire.

11. “Love minus zero/No limit”/”She belongs to me”
Due straordinarie canzoni d’amore (si fa per dire), entrambe su quel “Bringing it all back home” (1965) che inaugura la trilogia elettrica. La prima, spesso inserita nella scaletta dei suoi live, è stata inserita nella ristampa del “Concert of Bangladesh”.

10. “It’s all over now, baby blue”
La top ten è aperta da questa amarissima ballata che chiude lo stesso album. (In un sondaggio del 2005 dei lettori della rivista Mojo, “It’s All Over Now”, Baby Blue è stata inserita alla posizione numero 10 nella classifica delle 100 migliori canzoni di Bob Dylan; noi la mettiamo allo stesso posto – ma bariamo, perché ci sono molti ex aequo).

9. “Just like a woman”
Dylan dedica questa invettiva (acida e cattiva) a una sua ex amante, forse Edie Sedgwick, un’amica di Warhol a cui anche Lou Reed dedicò “Femme fatale”. Sessista? Misogino? Sempre capolavoro è, alla faccia della cosiddetta Cancel Culture.

8. “Sad-eyed lady of the lowlands”/”Desolation row”
Due lunghissime composizioni (11’ 23’’ contro 11’ 19”), a chiudere rispettivamente “Blonde on blonde” – di cui occupava, sola soletta, la quarta side, probabilmente perché Dylan stesso non la volle affiancare ad altri brani, convinto com’era che fosse la sua canzone più bella di sempre – e “Highway 61”. Della seconda (“briganti, papponi, cornuti e lacchè”), Fabrizio De André ha fatto una cover (“Via della povertà”).

7. “Tangled up in blue”/“Shelter from the storm”
Altra straordinaria doppietta (l’avevamo detto che avremmo barato…), stavolta da “Blood on the tracks”: probabilmente l’ultimo dei grandi anzi grandissimi LP di Dylan. Di “Shelter from the storm” ricordiamo il bizzarro controcanto di Bill Murray (con walkman e cuffiette) nel finale di “St. Vincent”, ma sul web potete trovarne anche una potente versione elettrica dello stesso Dylan per uno speciale tv del 1976.

6.“ It’s Allright, Ma (I’m only bleeding)”
Tra i suoi numerosi talkin’ blues scegliamo il più visionario e leggendario: “Va tutto bene, mamma: sto solo sanguinando”, o anche: “I soldi non parlano: bestemmiano”. Peter Fonda la volle a ogni costo nella soundtrack di “Easy rider” e tuttavia non gli riuscì di acquistarne i diritti; non si arrese, e chiese a Roger Mc Guinn dei Byrds di reinterpretarla.

5. “You’re a big girl now”
L’urlo di dolore di Dylan davanti al suo matrimonio che cade a pezzi: “Our conversation was short and sweet/It nearly swept me off my feet/And I’m back in the rain, oh/And you are on dry land/You made it there somehow/You’re a big girl now”.

4. “Ballad of a thin man”
“Do you, Mr Jones?” Nessuno ha mai saputo chi fosse questo Mr. Jones, a dispetto delle mille elucubrazioni fatte sul tema (“È una persona reale […] l’ho visto venire in camerino una sera e sembrava un cammello”), forse semplicemente un uomo medio, senza infamia e senza lode. Ma poi, è così importante. Il Dylan più innovativo, con quell’andamento marziale e drammatico dell’organo.

3. “Subterranean homesick blues”
Due minuti secchi e sincopati, una sorta di protopunk nichilista, quasi un’anticipazione (siamo nel 1965!) del rap: da podio. Per le liriche si parla di Beat Generation (Allen Ginsberg collaborò al videoclip, scrivendo di suo pugno i cartelli) e le memorie del sottosuolo di Dostoevskij. E poi c’è quel videoclip, per noi il più bello di sempre, nel quale un giovanissimo Bob – in bianco e nero – mostra alla telecamera dei cartelli con alcune scritte prese dal testo: “Don’t follow leaders/watch the parkin’ meters”.

2. “Knockin’ on heaven’s door”
E qui c’è poco da dire. Il nostro fa l’attore per Peckinpah, e canta la malinconica uscita di scena di uno sceriffo stanco e amareggiato (“Mama, take this badge from me/I can’t use it anymore). Un po’ troppo tamarra la cover dei Guns.

1. “Like a rolling stone”/”Blowin’ in the wind”
I due Dylan definitivi. Il Dylan elettrico e il Dylan acustico.

Giovanni Battista Menzani

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