Fragilità omeostatica dell’invecchiamento: cos’è e come combatterla

L’invecchiamento è un fenomeno fisiologico complesso e di cui non si conoscono ancora appieno tutti i meccanismi.

Dai dati raccolti dagli studi sulla popolazione mondiale è emerso un progressivo aumento dell’età media, un incremento che sta portando a far crescere la percentuale di pazienti anziani.

Con l’avanzare dell’età si verificano numerosi cambiamenti fisiologi che riguardano tutti gli organi ed i tessuti del corpo umano. L’organismo sfrutta diversi meccanismi per il mantenimento dell’omeostasi, ovvero la capacità di preservare una situazione di equilibrio a prescindere dai cambiamenti dell’ambiente esterno.

Cos’è la fragilità omeostatica dell’invecchiamento?

Con l’espressione fragilità omeostatica dell’invecchiamento si fa riferimento proprio all’alterazione dei meccanismi omeostatici che è tipica dei pazienti di età avanzata. Durante l’età pediatrica e l’età adulta i meccanismi fisiologici di mantenimento dell’omeostasi garantiscono le massime prestazioni, a meno che non si abbiano degli stati patologici.

Con l’avanzare dell’età si ha una fisiologica riduzione dell’efficienza dei meccanismi omeostatici, con un conseguente aumento del rischio dello sviluppo di alterazioni degli organi e dei tessuti o del loro funzionamento (Scopri di più su argentovivo.fondazionehumanitasricerca.it).

Fare ricerca sulla fragilità omeostatica è quindi fondamentale per perseguire l’obiettivo di migliorare la qualità di vita della popolazione generale, soprattutto in questo periodo storico in cui l’età media continua ad aumentare, determinando come prima conseguenza l’incremento della quota di pazienti con patologie croniche e politerapie.

L’alterazione dei meccanismi omeostatici predispone, infatti, allo sviluppo di patologie degenerative e di malattie croniche: scoprire i meccanismi alla base della fragilità omeostatica e individuare delle strategie di intervento potrebbe consentire una riduzione significativa del rischio di ammalarsi.

Come si combatte la fragilità omeostatica dell’età avanzata?

Per combattere la fragilità omeostatica è necessario innanzitutto conoscere i meccanismi alla base della stessa.

Le ricerche condotte fino ad oggi hanno messo in luce alcuni di questi meccanismi, proprio per questo i ricercatori sono consapevoli dell’importanza di continuare ad investire risorse in merito, per ampliare ulteriormente le conoscenze e provare a individuare le strategie più efficaci per contrastare la fragilità dell’omeostasi.

Molti studi hanno messo in luce una possibile relazione tra le alterazioni del metabolismo e la flogosi. Lo stato infiammatorio – soprattutto se protratto nel tempo – potrebbe infatti favorire l’alterazione dei processi metabolici ed influire in questo modo sull’omeostasi in maniera negativa. La flogosi potrebbe quindi essere uno degli elementi determinanti per la fragilità omeostatica, da cui deriva la necessità di intervenire prontamente per spegnere l’infiammazione.

In particolare, la Fondazione Humanitas per la Ricerca ha scoperto, grazie al meticoloso lavoro del Prof. Antonio Sica e del suo team, che l’enzima NAMPT potrebbe essere un tassello chiave nel controllo della flogosi. Questo enzima sarebbe infatti in grado di ridurre l’infiammazione, contribuendo in questo modo a preservare i processi omeostatici fisiologici.

Gli studi futuri dovranno quindi essere rivolti ad indagare ulteriormente il ruolo di questo enzima ed anche i vari meccanismi epigenetici che potrebbero variarne l’espressione. L’espressione genica non è infatti controllata solo dalle mutazioni genetiche, ma anche da processi epigenetici che regolano l’espressione genica (fenotipo), senza però modificare la sequenza nucleotidica del DNA (genotipo).

L’epigenetica spiega come sia possibile avere delle variazioni nell’espressione dei vari geni senza che ci siano alle base delle variazioni del genotipo. Anche l’espressione dell’enzima Nicotinamide phosphoribosyltransferase (NAMPT) sarebbe influenzata dall’epigenetica, oltre che dalle possibili mutazioni che possono colpire il gene codificante lo stesso enzima.

 

 

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