Un’indagine personale e familiare senza sconti: ecco il nuovo film di Bellocchio

“Marx può aspettare”: il titolo potrebbe far pensare a una dichiarazione di amnistia politica da parte di un uomo e di un regista che contro conformismo borghese, storture di potere, derive del Paese ha sempre fatto la sua battaglia, attraverso l’adesione alla lotta di classe. Invece l’ultimo film-documentario di Marco Bellocchio, Palma d’oro d’onore a Cannes, è molto altro e molto di più.

Marx può aspettare

Appena uscito nelle sale cinematografiche e coprodotto da Tenderstories, Kavac Film e IBC con Rai Cinema,“Marx può aspettare” è luce tagliente su una sofferenza intima e privata, troppo a lungo messa in ombra in ambito familiare: quella del fratello gemello del regista piacentino, Camillo, morto suicida a soli 29 anni. A dare titolo all’ultimo lavoro di Bellocchio, è proprio la risposta che gli diede il giovane poco tempo prima di morire, quando lui, già affermato nel cinema, lo esortò a dedicarsi alla militanza rivoluzionaria come soluzione alle sue inquietudini interiori. “Marx può aspettare” – disse Camillo -, come a significare: “Prima devo risolvere problemi per me ben più urgenti”. Problemi di cui nessuno in famiglia aveva capito la profondità, che reclamano il peso di un ascolto mai trovato. Un peso con con cui era finalmente doveroso fare i conti.

Il 16 dicembre 2016 Letizia, Pier Giorgio, Maria Luisa, Alberto ed io, Marco, le sorelle e i fratelli Bellocchio superstiti ci riunimmo, con mogli, figli e nipoti al Circolo dell’Unione a Piacenza per festeggiare vari compleanni. Io avevo organizzato il pranzo con l’idea di fare un film sulla mia famiglia, ma non avevo le idee chiare. Non sapevo cosa volevo esattamente fare. In realtà lo scopo era un altro. Fare un film su Camillo, l’angelo, il protagonista di questa storia“. Si apre così, con la voce fuori campo del regista, l’indagine personale e familiare che Bellocchio restituisce sullo schermo senza sconti, attraverso i ricordi suoi, di fratelli, sorelle e altri testimoni della vita di Camillo; alla ricerca di una spiegazione, non di un’assoluzione consolatoria, intorno al malessere incompreso del fratello.

Un’indagine che è anche confessione collettiva e universale, che il cineasta consegna ai figli Piergiorgio ed Elena, dove ciascuno custodisce la propria verità, sulla scia di una memoria cangiante e imperfetta come lo scorrere del tempo. Nell“Io mancai” di Bellocchio, ‘j’accuse‘ a se stesso molto distante dalla rabbia sessantottina, è evidente tutta la profonda pietas nei confronti del fratello e l’ammissione delle proprie responsabilità, ma ciò non lo induce a sottrarsi dal mettere a nudo le numerose contraddizioni di una famiglia italiana borghese tradizionale come la sua, simile a molte altre dell’Italia anni Sessanta: omologate in quell’”arida infelicità” – la stessa che ha schiacciato il fragile Camillo -, dove le Chiese imperanti cattolica e comunista e i comportamenti cari al buon padre di famiglia contano più del benessere intimo e dell’autenticità.

In questo c’è molto del modo e del senso di fare cinema del Maestro di Bobbio, che sembra sempre “un penitente di là dalla grata del confessionale” (lui così ateo, eppure così potentemente umano!) – come gli dice il gesuita Virgilio Fantuzzi, uno dei testimoni del film poi scomparso nel 2019 -; non a caso frammenti della filmografia del regista scorrono tra un’ immagine di famiglia e l’altra, rivisti alla luce del dramma. Da “I pugni in tasca (1965), a “Gli occhi e la bocca (1982), con Lou Castel che cita la frase pronunciata da Camillo; fino a “La Cina è vicina (1967)” e “L’ora di religione (2002)”: così che questo film è in fondo il modo migliore per capire il cinema del grande regista italiano.

Eppure, nella restituzione lucida, a tratti tenera, a tratti feroce, ma mai pateticamente sentimentale della tragedia, c’è spazio per ironia e leggerezza, armi fondamentali per mantenere il distacco formale necessario, che rendono “Marx può aspettare” ancora più coinvolgente. Piergiorgio Bellocchio che scherza sull’anticlericalismo esasperato del padre morente, la sorella Letizia, sordomuta, che crede nell’aldilà, ma si chiede: “Come faremo a ritrovarci? Saremo miliardi. Non mi interessano Dio e i Santi, mi interessa ritrovare la mia famiglia”; fino al fratello Alberto, riuscito a piangere il defunto solo dopo averlo visto nella stanza da morto, “all’odore di fiori sfatti”.

Un film di presenze e di fantasmi che ritornano, evocati sul filo di passato e presente, tra i mille rivoli della memoria. Fino alle lettere scritte da Camillo e poi buttate dai famigliari. Fino a ‘quella’ lettera che il fratello scrisse a Marco chiedendogli di lavorare con lui nel cinema, e a cui il regista superficialmente non rispose. Oggi, con questo film, Marco Bellocchio consacra finalmente Camillo e il suo ricordo al mondo del cinema e ai suoi spettatori, non un atto d’accusa, non un processo in cerca di colpevoli da condannare: solo un atto d’amore e giustizia verso chi se n’è andato dal mondo senza essere capito da quelli che più amava.

Micaela Ghisoni

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