Energia e personalità: Camille Bertault apre il cartellone del Jazz Fest

Apertura di grande impatto del tabellone principale per la diciottesima edizione del Piacenza Jazz Fest. Sabato sera, allo Spazio Rotative di Libertà, è andata in scena Camille Bertault con il suo quartetto. Un concerto di grande carica, di straordinaria e inesauribile energia vitale, con cui questa giovane formazione ha salutato nel migliore dei modi l’inaugurazione del festival, in due set tirati e densi di ritmo e di puro divertimento.

Una grande energia, innanzitutto questa la parola d’ordine per chi si assiste all’esibizione di Camille Bertault. Tutto il concerto è stato attraversato da una elettricità costante, un irresistibile bisogno di movimento e di danza. Un concerto costantemente segnato dal ritmo, vero motore di ogni brano, anche quelli più intimisti e meno gestuali. Non solo la ritmica, dell’istrionico percussionista Minino Garay, una maschera da commedia dell’arte con la smorfia di un sorriso perenne stampata sul volto, e del talenturoso Christophe Monck, bassista e musicista di grandissimo talento, splendido nei duetti in solo con la leader. Anche i notevoli assoli del pianoforte di Fady Farah, spesso segnati da brani percussivi o da cambi di timbro trascinanti, e la stessa Bertault, con i frequenti passaggi scat e le improvvise variazioni sul suono pulito della sua voce, sono dominati dalla ascendenza ritmica di ogni brano.

Ci sono modi di fare jazz che sono pura trascendenza, trasporto assoluto nell’intimo o nel mistico, altri che sono segnati dalla raffinatezza delle riflessioni intellettuali, dalla loro capacità di produrre pensiero e di segnare la storia dell’arte, altri che sono struggente malinconia, tutto quello che può essere la musica e questa musica in particolare. Quella del quartetto di Camille Bertault è anche tutto questo ma è innanzitutto divertimento, puro esplosivo senso di gioia e di godimento, che pervade anche i brani più struggenti, più introspettivi. Credo che chiunque fosse in sala ieri sera, in più di un passaggio del concerto, avrebbe voluto avere uno strumento per le mani e unirsi a loro per suonare e cantare i loro trascinanti brani, tanto era irresistibile il ritmo e pura la gioia che traspariva dai loro volti. O anche solo alzarsi dalla poltrona e saltare e ballare in maniera scomposta e improvvisata, fuori da ogni schema predefinito, cosa oltremodo sconveniente nel nostro mondo contemporaneo, così attento alla forma e alle convenzioni, ma che un secolo fa, in un locale del sud degli stati uniti dove questa musica è nata, chiunque avrebbe fatto seguendo solo il proprio istinto.

La voce di Camille Bertault e la sua grandissima personalità, occorre partire da questi due elementi per descrivere la musicista francese. Musicista che è anche autrice, non solo splendida esecutrice, dei brani che mette in scena, ieri sera principalmente tratti da suo ultimo album La Tigre.
Una donna giovane e carica di fascino, che già dalla mise scelta chiarisce l’orizzonte di riferimento. Un modo di vestire decisamente rétro nella foggia e nel taglio ma del tutto contemporaneo nella maniera in cui viene portato, con la stessa disinvoltura disincantata con cui ogni cosa viene fatta su quel palco con lo stesso, benvenuto, sincretismo in cui tutto si assume e si assimilata senza preoccupazioni alcuna di ortodossia.

Una padronanza assoluta della scena e degli occhi degli spettatori, catalizzati, ammaliati e attratti in maniera irrimediabile dal movimento continuo delle sue mani, dalla danza ininterrotta che segue ogni frammento di musica, mentre canta o ascolta gli assoli del proprio pianista. E tutto questo assecondato da una voce incredibilmente versatile e raffinata. Una voce pulitissima, dal timbro chiaro, quasi cristallino, capace di qualsiasi cosa Camille le chieda. I passaggi più complessi sotto il punto di vista tecnico, virtuosismi inarrivabili per quasi chiunque (il suono perfetto e altissimo di un’ambulanza nel brano New York, unico bis della serata), i salti di registro improvvisi, le contorsioni della melodia, i ritmi sincopati da uno scat sempre sorprendente, per varietà, qualità, perizia, e poi la dolcezza degli istanti più distesi, accompagnati da un francese perfetto per raccontare quella musica.

E la canzone, quella francese che conosciamo tutti ma anche quella americana delle grandi interpreti jazz del novecento che l’hanno preceduta, piena di malinconia e di languore. Tutto convive perfettamente, tutto in un missaggio ideale, leggero e gioioso, tenuto assieme dal dono di quella voce splendida e ancora in gran parte inesplorata nelle possibilità espressive.

La musica di Camille Bertault è per certi versi senza tempo. Difficile dire dove e quando stia il suo mondo, a patto di essere ovviamente in un’età successiva alla maturazione più completa del jazz, genere di cui è completamente intrisa e a cui è impossibile sottrarsi ascoltandola. Ma, forse, tutte le contaminazioni di cui questa musica è fatta e, soprattutto, tutta la disinvoltura con cui Bertault prende, assimila e rielabora gli stimoli con cui viene a contatto, senza pretese di rigore, senza ricerca di alcuna correttezza filologica, per puro e insindacabile istinto, la rendono completamente contemporanea. Un’età con pochi maestri, dalla cultura pressoché orizzontale e totalmente condivisa in cui il vero tratto dominante è proprio, e forse finalmente, la leggerezza e il disincanto con cui tutto può essere preso, assimilato e restituito al mondo secondo le proprie inclinazioni.
Migliore inizio, insomma, non poteva esserci per il primo Jazz Fest dell’età matura, un primo concerto fatto di gioia ed energia ma che, mentre balliamo e cantiamo travolti dal suo ritmo coinvolgente, ci porta nel mondo contraddittorio e inesplorato di questa complessa contemporaneità.

Fabio Boiardi

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