Come si viveva nella Piacenza del Trecento? Partecipato incontro a palazzo Galli foto

Come si viveva nella Piacenza del Trecento? Dopo le letture di Nando Rabaglia di alcuni passi del volume “Gli Statuti di Piacenza del 1391 e i Decreti viscontei” di Giacomo Manfredi – proposte a Palazzo Galli (Sala Panini) nell’ambito dell’Autunno culturale della Banca di Piacenza -, la curiosità di conoscere le antiche tradizioni della nostra città è stata senz’altro appagata.

Il relatore, dopo l’intervento di saluto del presidente esecutivo dell’Istituto di credito Corrado Sforza Fogliani («L’Evo medio – ha osservato -, a dispetto della fama che gli è stata attribuita, fu un periodo che valorizzò le autonomie locali e di categoria, caratterizzato com’era dal pluralismo giuridico come nessun altra era è stata»), ha riassunto le principali caratteristiche dell’Età comunale – di cui gli Statuti viscontei sono figli – scorrendo i capitoli del prezioso studio del compianto magistrato piacentino. A cominciare dalle cariche pubbliche. La più alta carica cittadina era quella del Podestà. Eletto dal Consiglio generale (l’organo collegiale più importante nel Comune, costituito da 600 consiglieri tratti in ragione di 100 per ogni porta della città), gli era attribuito ogni potere, dall’amministrativo al giudiziario, ma non è che godesse di particolari privilegi. Per i sei mesi del suo governo, infatti, riceveva un salarium di 1.300 lire piacentine, 200 delle quali dovevano essere depositate a titolo di cauzione verso il Comune, che gliele restituiva a fine mandato ma solo se non si fosse trovata alcuna irregolarità amministrativa a lui attribuibile. Non bastasse, con il salarium il “sindaco” di allora doveva coprire le spese per mandare avanti anche gli uffici da lui dipendenti e costituiti da persone di sua fiducia, comprese il Vicario e sei giudici.

Sotto la lente di Rabaglia, anche gli aspetti più curiosi, citati nel libro di Manfredi, su come venivano puniti i reati compiuti nel medioevo a Piacenza. Intanto, chi non pagava le tasse finiva in galera. La falsa testimonianza era sanzionata con il taglio della lingua. Le pene corporali erano applicate in molti casi: furto (con pene variabili a seconda del valore delle cose rubate: fino a 20 soldi, il colpevole veniva denudato alla cintola, posto alla berlina e frustato; da 20 a 40 soldi, si praticava il taglio di un’orecchia; oltre i 40 soldi e fino a 100, si toglieva un occhio; oltre i 100 soldi e fino a 10 lire, si amputava anche un piede; oltre le dieci lire, condanna a morte per impiccagione), adulterio (adultero e adultera erano condannati al pagamento di 200 lire; se la donna non pagava entro 5 giorni, veniva denudata fino alla cintola, frustata e portata in giro per la città; non si configurava adulterio se la donna era pubblica meretrice). La pena di morte si applicava anche in caso di violenza carnale (ma non se compiuta ai danni di pubblica meretrice), omicidio (la modalità la stabiliva il Podestà) e rapina (con l’impiccagione).

I partecipanti all’incontro hanno ricevuto copia del volume: il primo libro pubblicato dalla Banca, nel 1972, di recente ristampato in edizione anastatica.

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