Grandi interpreti per l’Aroldo di un Verdi “minore”: applausi al Municipale
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Dopo circa 20 anni l’Aroldo di Giuseppe Verdi torna al Municipale ricevendo molti applausi ed unanimi, se non entusiastici consensi, per le voci e qualche diniego per la messa in scena da parte di un pubblico sufficientemente numeroso in un teatro tutt’altro che esaurito.
Pur non essendo tra le opere meglio riuscite del Cigno di Busseto, crediamo che meriterebbe di essere rappresentata più spesso per la bellezza della musica (seducente la sinfonia iniziale con la tromba che guida l’orchestra con mirabili e stimolanti motivi) dove compaiono ed emergono temi religiosi, epici, romantici e mistici, con l’assidua e funesta presenza dell’ombra dell’originale inganno amoroso e dell’onore araldico con intrecci spesso complicati e complessi ed un finale un po’ insolito (anche nel luogo) nelle opere verdiane, dove l’eroina, questa volta, viene perdonata e ritrova il suo vero ed unico e primitivo amore.
L’Aroldo è stata sicuramente l’opera di Verdi che ha avuto la più lunga e contrastata gestazione, tanto che dall’originale “Stiffelio”, andato in scena la prima volta il 16/11/ 1850 al teatro Grande di Trieste, ritorna per un’altra “prima”, quella di Rimini il 16 agosto 1857, con un nuovo titolo, l’Aroldo”, con un’ambientazione ed epoca diversa, passando da un lago della Baviera in un castello dell’800 ad un antico maniero nella contea di Kent del XIII° secolo, per finire negli anni ’30 con il tentativo di conquista di popolazioni africane da parte delle truppe del regime fascista, tra cui troviamo il novello Aroldo. Così si passa dalla storia del pastore protestante (Stiffelio), tradito dalla moglie, alla stessa sorte subita dal nobile guerriero crociato che aveva abbandonato moglie e feudo per difendere una giusta causa di fede religiosa. Intenso quindi il lavoro del librettista A.M. Piave, che modificò sensibilmente il testo e la tresca dei sentimenti, e del “maestro” che tagliò brani musicali aggiungendone altri (addirittura un atto) secondo una più ortodossa fede religiosa e secondo i desideri della censura dell’epoca, piuttosto noiosa su tutta la linea. Ricordiamo che nel frattempo (dal 1850 al 1857) Verdi compose opere straordinarie come Rigoletto, Trovatore e Simon Boccanegra, di cui parecchi stralci troviamo nell’Aroldo.
Se a quel tempo le modifiche erano imposte e necessarie per volere delle autorità politiche e religiose, non si capisce la gratuita trasposizione dei tempi dell’edizione di oggi con la storia datata il secolo scorso coinvolgendo il fascismo e la guerra d’Africa. Così l’opera perde i suoi colori, i suoi smalti e gran parte della sua bellezza. Chissà quale sarebbe stata la reazione del Maestro Verdi nel vedere la sua opera tanto tribolata e sofferta con inseriti campagne in Abissinia, dei “camerata” con degli spezzoni cinematografici di bombardamenti. Oggi, a quanto pare, la volontà dei geni creatori conta molto meno del desiderio di stupire con argomenti triti e ritriti come il fascismo. Se plaudiamo, quindi, l’idea di riproporla – perchè la composizione musicale e vocale è un compendio di notevole valore dell’arte verdiana – non comprendiamo queste ingiustificate trasposizioni che, oltre tutto, la stragrande maggioranza dei melomani non gradisce, come espresso dai commenti nel foyer durante gli intervalli. “Non dobbiamo sorprenderci se poi i teatri si svuotano ed i giovani si allontanano dalla lirica” – commentava un anziano socio degli Amici della Lirica.
Il disappunto cresce considerando che gli interpreti canori e musicali sono stati davvero bravissimi. Un vero piacere sentire le loro voci, con un Luciano Ganci (Aroldo) davvero superlativo per chiarezza del timbro di voce, facilità negli acuti e l’eccellente preparazione musicale che fanno di questo ancor giovane tenore (compirà 40 anni a giorni), peraltro laureato in urbanistica e pianificazione territoriale, uno dei più interessanti ed applauditi cantanti a livello internazionale. Ci auguriamo di risentirlo magari assai impegnative come Andrea Chenier. Accanto a lui ha brillato la giovane (non ancora 34enne) soprano Roberta Mantegna, che avevamo già apprezzato nel Corsaro, dalla voce calda ed espressiva con apprezzabili modulazioni e con una interpretazione molto convincente. Il baritono bulgaro Vladimir Stoyanov ha cantato e canta abitualmente nei più grandi teatri mondiali con i più affermati direttori d’orchestra. Un’autentica star baritonale, apprezzato in un repertorio vastissimo che interpreta con intensità, maestria espressiva e padronanza musicale: Il suo inizio di terzo atto con la doppia romanza, da sola merita il costo del biglietto. Il basso Adriano Gramigni, figlio d’arte ed ancora giovanissimo, ha superato molto positivamente la prova, impressionando per sicurezza e qualità vocali. Un giovane da seguire e da risentire. Così come assai convincente è stato il giovane tenore triestino Riccardo Rados. Breve ma adeguato l’Enrico di Giovanni Dragano.
Se l’orchestra giovanile Luigi Cherubini, diretta mirabilmente dal maestro Manlio Benzi, è andata in crescendo a volte con impeti epici ed altre con squisite delicatezze, a nostro avviso (probabilmente peccando in campanilismo) la Palma del migliore in assoluto della serata spetta al Coro del Teatro Municipale di Piacenza, diretto magistralmente dal maestro Corrado Casati: in questa opera il coro ha un’importanza fondamentale perchè sorregge tutta la costruzione musicale e dà un’impronta significativa agli sviluppi degli eventi. Si passa dai toni epici a quelli mistici con una ricchezza espressiva che coinvolge e trascina, degna dei miglior palcoscenici operistici.
Luigi Carini
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