Le Rubriche di PiacenzaSera - Inter Cultura

Lavoro e immigrazione, tra integrazione e marginalizzazione: le strategie di Germania e Italia

Più informazioni su

IMMIGRAZIONI E LAVORO IN GERMANIA E ITALIA – In uno degli ultimi discorsi prima del suo ritiro Angela Merkel ha paventato una diminuzione della ricchezza del Paese e tra gli antidoti ha indicato l’accettazione di un maggior numero di migranti, per una popolazione in rapidissimo invecchiamento. Un istituto di ricerca economica tedesco (IW) ha ipotizzato che da qui al 2035 in Germania mancheranno cinque milioni di lavoratori; oltre a costruire maggiori iniziative che favoriscano la conciliazione con i tempi di lavoro, anche i migranti potrebbero contribuire a soddisfare il fabbisogno di personale specializzato. Ne occorrono 400 mila all’anno, precisa IW, in diversi settori e suggerisce di accelerare sui programmi di formazione.

Un’apposita legge entrata in vigore nel marzo 2020 prevede il riconoscimento dei diplomi in possesso dei lavoratori stranieri; nello scorso anno ne sono stati riconosciuti 44.800 conseguiti fuori Paese, due terzi nel settore sanitario, ma già risultano insufficienti. Un quinto della forza lavoro è costituita da migranti, senza di loro la Germania può sostituire 6 su 10 tra i 55 e i 59 anni. Al 2030 la popolazione in età lavorativa sarà scesa del 6,8% se il loro numero rimarrà costante e se diminuissero il sistema Paese perderebbe di competitività nell’UE.

Molto simile il paragone con l’Italia, anche se le strategie d’attacco al problema sono opposte; per loro si tratta di integrare, specializzare, occupare coloro che provengono da altri Paesi, mentre da noi si cerca di tenerli in mezzo alla strada per poter dimostrare la loro pericolosità e far percepire al cittadino italiano la minaccia dell’invasione. Anche ai tanti posti di lavoro vacanti che vengono esibiti dal mondo imprenditoriale non corrisponde un’azione mirata di formazione nei confronti dei migranti, perlopiù impiegati in mansioni scarsamente qualificate, senza un investimento di qualità nella loro occupazione.

Il decremento demografico da noi farà ben presto calare sia gli studenti che la forza lavoro, senza che per il momento vengano attivate politiche mirate al coinvolgimento ed alla responsabilizzazione di giovani e adulti stranieri; anche la legislazione in materia di formazione scolastica e professionale pur aprendo la strada ai nuovi arrivati si preoccupa di definire una serie di adempimenti a loro carico per la frequenza a corsi fortemente strutturati ai quali ci si deve adattare, lasciando sulle spalle dei docenti altri aspetti della così detta integrazione, senza supporti nel campo del welfare, mantenendo i migranti ai margini del governo del territorio.

I recenti provvedimenti di regolarizzazione previsti per i settori dell’agricoltura e dei servizi alla persona, in risposta agli indifferibili fabbisogni, che spesso occupano mano d’opera irregolare, anziché prevedere “corridoi” in stretto rapporto con i datori di lavoro e con i paesi d’origine, hanno buttato tutto nel calderone burocratico dei permessi di soggiorno, e sebbene il numero sia aumentato per opera di un recente decreto, i riconoscimenti vanno a rilento, mettendo in difficoltà chi li doveva assumere e facendo cogliere all’opinione pubblica ancora una volta il disagio di convivere con persone provenienti da fuori paese.

Nell’area OCSE si registrano miglioramenti delle condizioni occupazionali per il suddetto personale, anche se ancora si tratta di lavori a bassa qualificazione e retribuzione soprattutto per quanto riguarda le donne e i giovani; le aziende condotte da stranieri sono in crescita anche se essendo perlopiù imprese individuali registrano una bassa produttività e con basse retribuzioni, il che fa proliferare il lavoro nero. Molto difficoltosi risultano le equiparazioni dei titoli di studio, soprattutto per quanto riguarda le abilitazioni alle così dette professioni regolamentate, anche se si devono registrare progressivi successi negli studi secondari e universitari, specialmente dai giovani nati in Italia.

Durante la pandemia i migranti sono stati impegnati nei servizi essenziali, nei paesi UE si stima al 13% la loro presenza in quelle mansioni, così che la crisi sanitaria ha avuto l’effetto di rafforzare la loro presenza e le Nazioni Unite hanno stimato in circa il 30% della forza lavoro. Sono stati sempre in prima linea esposti ai maggiori rischi del contagio anche per ciò che riguarda situazioni alloggiative precarie, senza poter beneficiare dello smart working o di sostegni al reddito (rapporto ISMU 2020). E ciò varrà soprattutto in futuro data la preoccupante carenza di organico nei profili infermieristici e assistenziali per i quali spesso gli stranieri sono sovra-qualificati anche senza il riconoscimento del titolo di studio conseguito in patria.

Negli ultimi anni il legame con le competenze è diventato sempre più importante per assicurare un’immigrazione sicura e con il Covid e la crisi economica desta meno preoccupazione; i cittadini sembrano essere in grado di distinguere tra le problematiche che li toccano da vicino e quelle che invece la politica mira a far percepire come maggiormente rilevanti.

Giancarlo Sacchi

Più informazioni su

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di PiacenzaSera, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.