Le Rubriche di PiacenzaSera - Nave in bottiglia

Piacenza e l’uragano Covid, due anni dopo siamo cambiati

Chi manca all’appello, ora che tutto questo sembra essere finito? Adesso che si sono riaperte porte e portoni, che si sono riempite (prudentemente, certo) le strade e i mezzi pubblici? Ora che si riempiono le aule scolastiche, i bar, i teatri e i cinema, le piste da sci, gli stadi e gli studi televisivi, due anni dopo non è solamente il distanziamento sociale a evidenziare i vuoti lasciati dal passaggio dell’uragano Covid-19 perché le assenze inattese sono tante: troppi i morti in questa guerra in cui il nemico è invisibile, anche se è stato accertato che è venuto da lontano, dalla Cina, come certi invasori di un tempo (ma quelli almeno li vedevi), come le flotte dei pirati, le truppe di Napoleone, gli elefanti di Annibale.

Che in questa provincia emiliana – l’ultima verso Ovest prima di incontrare Piemonte e Liguria e affacciata sul Po davanti al Lodigiano e alla Codogno del “paziente 1” – fosse in corso un’ecatombe non lo sapevamo e non avevamo, forse, chiaro che a Piacenza il numero dei morti ufficiali per Covid, in termini relativi, sarebbe stato superiore al bilancio drammatico di Bergamo, Brescia e Cremona, i cluster dove il flagello ha colpito in modo abnorme. Dal 21 febbraio i decessi a Piacenza – la cui provincia conta 287 mila residenti – sono stati proporzionalmente più numerosi che nel Cremonese, 358mila residenti, nel Bresciano che censisce un milione e 265 mila residenti. E Bergamo, la città più martoriata dal Covid dove per portare via le bare sono serviti i camion dell’esercito? Anche qui, in un hinterland che comprende un milione e 114mila persone il rapporto tra abitanti e deceduti è stato inferiore a Piacenza.

Due anni dopo (come il romanzo di Dumas) siamo cambiati, non siamo più abituati ad abbracciarci, abbiamo perso alcune abitudini consolidate, stentiamo a riconoscerci dietro alle mascherine Ffp2. Ma siamo anche orfani di tanta gente che aveva tanta storia alle spalle. Piacenza ha una popolazione anziana. E il virus è stato più letale nella fascia della terza età. Coloro che hanno ricostruito il Paese dopo la guerra, che hanno vissuto e realizzato il boom economico e hanno contribuito alla crescita del Paese sono quelli che ci hanno lasciato prima di ogni altro. Non potremo dimenticare i giorni in cui si sentiva solo il suono delle sirene, i giorni degli oltre 150 accessi al Pronto soccorso, in cui nessuno osava sperare che questa malattia potesse essere vinta. Di quel periodo c’è comunque il ricordo di tanta solidarietà, del bisogno di capire, di fare il possibile.

In tal senso la sorveglianza è stata il punto cardine su cui ha poggiato la riprogrammazione della sanità piacentina. Una persona che avesse sintomi, tipo febbre, veniva segnalato dai medici di medicina generale all’Azienda sanitaria. Le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) sono intervenute a casa e Piacenza, grazie anche all’esperimento del dottor Luigi Cavanna, cui ha fatto seguito la rodata e massiccia macchina organizzativa dell’Azienda, ha fatto scuola. Tante persone sono state salvate con le cure a domicilio, con la tempestività dei medici, prima del varo del vaccino, prima che si cominciasse a capire qualcosa di più su questo maledetto virus.

Da due anni a questa parte giovani e meno giovani sono cambiati, c’è chi ha perso il lavoro, chi non ha potuto far visita per troppo tempo ai propri cari ricoverati nelle strutture. Il nostro universo ha due fasi distinte: la prima arriva al 19 febbraio 2020, la seconda è ancora in corso. Purtroppo tra troppe polemiche e inutili dibattiti televisivi.

Mauro Molinaroli

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