“Se c’è un Dio è sicuramente umorista: ‘Salvarsi a vanvera’ ce lo ricorda”

“Dal basso si può raccontare tutto. Dall’alto si rischia di cadere”. Si può raccontare anche la storia di Cina, protagonista dell’ultimo libro di Paolo Colagrande, “Salvarsi a vanvera”, a breve in uscita per Einaudi. Una novantenne riacquista occhi di bambina, riuscita a scansare i temuti elenchi sotto la mannaia delle leggi razziali grazie ai più diversi espedienti. Tema tragico, si capisce. Ma se scoprissimo che perfino la più immane delle tragedie deve vedersela con l’inconsapevole comicità intrinseca alla dimensione umana?

Premio Campiello nel 2007 con “Fideg”, suo romanzo d’esordio, e poi con “ La vita dispari”(2019), lo scrittore e avvocato piacentino Paolo Colagrande non è uno di troppe, spesso inutili, parole. Ma quelle che dice arrivano dritte al bersaglio. L’abbiamo intervistato per qualche anticipazione sulla sua ultima fatica, presto in libreria, ma la conversazione è stata fortunata occasione per un breve, appassionante tuffo in tutta la sua narrativa. E, quel che forse più conta, nel nostro modo di muoverci al mondo.

Partirei dalla tua prossima uscita in libreria per Einaudi, “Salvarsi a vanvera”: titolo promettente, sembra fedele al registro comico, ma profondamente realista con cui scrivi. Ce lo spieghi?
Il titolo è solo vagamente evocativo, difficile spiegarlo. Posso dire, tentando una traccia plausibile, che nella storia si muove una salvezza fragile e sempre precaria: quella, astratta, di orientarsi e districarsi fra le trappole del mondo e quella, più storicamente contestualizzata, di non finire dentro certi elenchi sotto il vigore delle leggi razziali. Per la salvezza si può anche rinnegare la propria carne, il proprio Dio, il proprio nome, spendere come autentico l’inverosimile, coltivare il falso da esperti falsari, cioè con arte. Il tema, come si vede, è profondamente tragico, e del resto la musa tragica è quella a cui riesco più a dar retta, ma la tragedia deve fare i conti con un impianto incongruo e sgangherato: l’uomo, organicamente comico, e la comicità rovina le pose e sbugiarda le imposture. Il comico è la nostra parte naturale, buona e onesta. Detesto il comico dichiarato, cercato, artificiale, eletto a genere e canonizzato. Mi affascina il comico che è dentro di noi, che non ci accorgiamo quasi mai di avere, che guida le nostre azioni quando facciamo programmi rigidi, dichiarazioni lapidarie o quando indossiamo una divisa, qualunque divisa. Se c’è un Dio è sicuramente un Dio umorista: ci ha creato costituzionalmente inadeguati per osservarci nella nostra inadeguatezza e riderne. Il witz ebraico si nutre di questa dimensione: una dimensione divina, appunto.

L’occupazione nazi-fascista italiana vista da una bambina, di questo tratta il libro. Come mai tale scelta? Quanto si rispecchia nella tua attitudine a raccontare ‘dal basso’, osservando i fatti rasoterra senza alcun intento intellettualistico?
Dal basso si può raccontare tutto. Dall’alto si rischia di cadere. Nel libro mancano le parole Italia, italiano, italiani, fascisti, nazisti, Mussolini, Hitler, Badoglio eccetera, con tutte le loro risonanze. La voce narrante è una novantenne che ai tempi era bambina, e racconta le cose come le ha viste allora, con quegli occhi: non gli occhi adulti della Storia, e tanto meno della politica o dell’ideologia, ma di un quotidiano scomodo, da salvare come si può schivando la catastrofe, cercando di camminarci in mezzo stando attenti a dove mettere i piedi. Sullo sfondo si agita un mappamondo grottesco di pupazzi criminali illustri e tragiche farse che diventeranno poi Storia, ma che nel racconto di Cina impegnano solo la coda dell’occhio.

Un quadro sull’evoluzione della tua narrativa, dai primi racconti fino alla tua prossima uscita: dai frammenti di storie con al centro il protagonista di Fideg, all’intreccio di punti di vista nei romanzi successivi, tra una digressione e l’altra. Ci racconti questa trasformazione, forse il nostro vivere?
Ogni libro è un ricominciare da capo. Si è eternamente esordienti e fisiologicamente principianti. Se si scrivono cose diverse è perché la diversità è l’unica materia prima dello scrivere, che non ha regole di mestiere. Non sono sicuro di aver seguito un’evoluzione, o di aver fatto progressi. Ci sono cose che possono essere raccontate per frammenti, digressioni, divagazioni funzionali allo svolgersi di una storia, come in Fideg. Ma ci sono storie che pretendono una narrazione più rettilinea (Dioblù, La vita dispari), cercano visuali comode dove far vivere e ballare le proprie marionette. E’ la storia stessa, mentre si svolge, a guadagnare i propri spazi, a scegliere una strada.

Ritorniamo a Fideg, che sarà ristampato per Einaudi. Che effetto ti fa l’acclamato ritorno del tuo primo libro? Molta richiesta tra i lettori?
Fideg è fuori catalogo da circa dieci anni: è stato poi in circolazione grazie ai circuiti del reso o dell’usato. Era ancora in formato e-book, ma non si sapeva a cura di chi, perché il bellissimo catalogo di Alet era stato acquisito da un gruppo più grande e i diritti erano scaduti. Quando i librai non riuscivano più a recuperare copie ho cominciato a ricevere richieste dirette, sia su piattaforme social, che frequento poco, sia per lettera e addirittura per telefono. Mi faceva piacere, ma non sapevo cosa rispondere. Io stesso a casa ne ho una sola copia. Fino a che Einaudi ha deciso di metterlo in catalogo e ripubblicarlo. La riedizione ha comportato una rilettura, non solo editoriale, che ha lasciato il testo intatto ma che, per quel che mi riguarda, ha riaperto vecchi panorami, per così dire, con tutto un bagaglio prezioso di memoria.

Fideg dipinge la provincia emiliana, i suoi caratteri e quelli dei suoi abitanti, un mondo che tu ben conosci. Quanto c’è di autobiografico tra quelle pagine?
Non ho senso di appartenenza ad un territorio a cui sono comunque affezionato ma che non rivendico come mio. Se cercassi di riproporlo nel libri farei qualcosa di innaturale, quindi di disonesto. Durante una lettura di “Senti le rane” a Cosenza, una signora del pubblico interviene e dice: “mi sembra di vedere e sentire alcuni personaggi di queste parti”. Insomma è il lettore che reinterpreta e ricontestualizza le storie che scrivi. Ovvio che nei personaggi che invento, nel loro modo di vivere o ragionare, nella loro cadenza, si muove qualcosa di già sedimentato e, forse, di inconsciamente allusivo. Non so se si chiama autobiografia. Nella parola autobiografia c’è sempre un falsetto strano, sinistro, un frugare fra i cadaveri. La realtà, al di là della geografia o del contesto narrativo, è solo lo sfondo per inventare e reinventare. Il già vissuto è materiale d’archivio, irripetibile. Ma è inevitabile che qualcuno riconosca “personaggi di queste parti”, come diceva la signora di Cosenza. E al Nello Benazzi di Fideg è stata subito data un’identità anagrafica, quella del mio amico Gianni. E’ molto plausibile, e la contaminazione funziona, anche se Gianni è decisamente meglio di Nello.

Il tuo romanzo Kammerspiel (2008) che riprende le avventure di Bisi, a un certo punto prospetta nel XXI secolo uno scenario di “pazienti morti in mezzo ad un traffico dinamico di chirurghi eleganti che sorridono” . Ti pare l’imprevista pandemia da Covid abbia sostanzialmente confermato tale visione, o in qualche modo ha sparigliato le carte?
In bocca al protagonista-narrante Bisi quella era la metafora di una modernità affondata nel paradosso, dove l’eccellenza del mezzo prevale sull’importanza dello scopo. Abbiamo a disposizione strumenti sofisticatissimi, ma è come se servissero solo a stimare l’abilità di chi li usa, a gratificare l’operatore. La frase: ‘l’operazione è riuscita ma il paziente è morto’ rappresenta bene questa visuale. Ma resta una metafora dentro quella storia. La pandemia ha sbriciolato le nostre certezze e messo a nudo la nostra fragilità, ci ha tolto persone care; e ci ha messo nelle condizioni di fidarci di un sistema fatto soprattutto di persone, che alla fine ha funzionato. E sta ancora funzionando.

C’è ancora spazio oggi per un buon romanzo, visto che che scrivere libri sembra diventata tendenza? O la buona scrittura è fagocitata dalla smania di comunicare?
C’è sempre spazio per la letteratura. Quella che ci porta oltre i ‘nostri fatti fatui’, ‘le nostre spoglie vuote e smorte’ (G. Manganelli), e che può anche non esprimersi in romanzi. La cosiddetta ‘tendenza’ non c’entra con la letteratura. Letteratura di tendenza è un ossimoro, anche se occupa l’ottanta per cento della produzione editoriale definita letteraria. La facile omologazione a temi e modelli, la replica di stereotipi da medio benessere, i semilavorati da abbellire con luoghi comuni, conformi a una tecnica commerciale basata sull’equivoco del ‘lettore debole da intercettare’, sono solo strumenti di tortura per una letteratura già agonizzante. Sarebbe compito degli editori cambiare, o far cambiare, rotta. Ma c’è molto timore a farlo.

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