“La cultura rallenta la guerra quanto un lanciarazzi un carro armato”

Riportiamo il testo integrale dell’orazione ufficiale letta dallo scrittore piacentino Matteo Corradini il 18 aprile alla commemorazione della battaglia di Monticello, ai piedi del monumento del Valoroso.

Quando mi è stato chiesto di dire due parole in questo giorno, ho accettato quasi d’istinto. Le domande importanti sono venute appena dopo: cosa dirò, cosa farò, quanto c’entrerò. E a nessuna inizialmente riuscivo a dare una risposta, se non negativa. Vi metto a parte di questi pensieri personali perché in vita mia non mi è mai capitato di imbracciare un fucile, o di usare un’arma. Non ho solo paura delle armi: sento di provare nei loro confronti un sentimento profondo di giudizio, una sorta di ribrezzo. E quel sentimento è tornato a galla subito dopo aver riagganciato il telefono, quando l’ANPI di Piacenza mi ha cercato. Cosa c’entro io, inerme e con la mia storia, con l’anniversario di una battaglia?

Posso riflettere sul passato ma non riesco a riflettermi nel passato. Le immagini riflesse hanno tutte il medesimo problema: quando guardiamo uno specchio, quello specchio inchiodato all’armadio di casa o quello con l’aureola di lucine nel camerino di un teatro o più di sfuggita quello scuro del finestrino di una macchina parcheggiata o della vetrina spenta di un negozio, lo facciamo sempre volontariamente. Ci prepariamo. Sappiamo che dopo pochi istanti vedremo noi stessi riflessi, e il solo pensiero ci spinge a prepararci, ad assumere una posa, la migliore che ci riesce, ci spinge a vederci come speriamo di vederci.
Quando accade, quando ci specchiamo, accade perché già abbiamo assunto quell’espressione che ci piace vedere. Ci prepariamo all’osservazione di noi stessi, e così facendo in fondo la evitiamo, aggiriamo la profondità per fermarci alla superficie. Ho la sensazione che una parte di ciò che scegliamo sia una sorta di riflesso superficiale di quel che vorremmo essere. Una parte di ciò che andiamo a cercare, serve in fondo a restituirci una immagine rassicurante di noi stessi. Anche quando facciamo memoria è così. Cerchiamo ciò che siamo in quella parte di passato che più ci somiglia, o che più combacia con un’idea superficiale e meno spaventosa di noi stessi.

Nei tempi antichi ci pensavano i miti a rasserenarci e a spiegarci. Ma oggi chi ci spiega più? Chi ci aiuta a spiegare oggi le nostre divisioni, gli esseri nei quali ci siamo trasformati, la nostra volontà di dividerci, di giudicarci, il modo complicato di vivere il pianeta? Per quelli della mia generazione, poi, la guerra fa da sempre la sua apparizione in tivù, con la tavola apparecchiata. Quelli della mia generazione e quelli della generazione successiva quante guerre hanno realmente visto? Tante. O forse nemmeno una. Per questo ho accettato. Perché da venti e passa anni lavoro su un passato in apparenza lontano e ormai perduto, ma che mi riserva di volta in volta buone novità. Qui e là, sorprendentemente, ho la sensazione di vedere me stesso. Senza preparativi, senza pose, senza rassicurazioni. Me stesso e basta.

Fare memoria è considerare il passato alla luce di un distacco, è instaurare una relazione con quel passato preciso, la lotta partigiana, nella consapevolezza di una lontananza incolmabile ma necessaria a comprendere. Fare memoria, per me scrittore, è mettersi in relazione con le parole del passato e comprendere da vicino quelle domande che ancor oggi si dimostrano attuali. Lasciarsi interrogare dagli stessi interrogativi. Lasciarsi chiamare dalle stesse invocazioni. È una specie sincronia. O più semplicemente un parlare alle fotografie. A voi non capita mai? A me sempre. Le guardo e provo a entrare negli occhi di quei ragazzi partigiani che combatterono, anche qui, provo a guardare le loro mani, i loro sorrisi, perché spesso quelle immagini sono state scattate nei rari momenti di tregua. E provo a parlargli. Chi sei tu davanti a me? Visto da fuori, hai un certo aspetto che vedo e che mi comunica qualcosa. Ma chi sei dentro, nel profondo, chi sei sotto la pelle? Da dove vieni veramente? Qual è la tua identità? Cosa desideravi diventare, Lino? Cosa sognavi di costruire, Gino? Quel che ti è accaduto nel passato lo conosco, da dove vieni, chi ti ha cercato, chi ti ha messo in mano un moschetto. Ma voglio sapere di più, cosa vedevi fuori dalla finestra nei rifugi segreti, se ti tremavano le mani, se rimpiangevi una spensieratezza che non avevi mai conosciuto, o forse c’era stata, qual è l’odore di una battaglia, che nei libri di storia non potrà mai posarsi. E quali parole hai pronunciato davvero mentre la vita se ne andava e comprendevi che saresti rimasto per sempre qui. Per sempre al Monticello. Per sempre partigiano. Per sempre giovane.

Le ragazze del nuoto sincronizzato tengono il tempo con il corpo anche quando hanno la testa sott’acqua. Senza respiro. Senza sentire alcun suono. Senza vedere buona parte di quel che sta accadendo. Hanno solamente un buon senso del ritmo? O forse possiedono qualcosa di più profondo: vanno a tempo perché rispettano il tempo. Fare memoria è per me custodire la forza di questa sincronia. Noi, noi esseri umani di oggi, noi insegnanti, noi studenti, di tutte le età, siamo custodi della sincronia. Lo siamo non con le nostre idee, i nostri pensieri, le nostre conoscenze. Lo siamo con i nostri corpi. Con noi stessi da capo a piedi. Con la nostra identità. Oggi tutto grida di schierarsi. E davanti alle nuove famiglie di profughi che vedi arrivare nelle città europee sono ben più le domande delle risposte, e cresce in noi quella disillusione di chi vede ripetersi la storia, sempre identica a se stessa, involuta, sempre con gli stessi meccanismi di potere, soldi, tanti soldi, armi, e ancora soldi, e soldi, e odio. E soldi.

Mi capita di percorrere tratti di strada all’estero. Sui treni intorno a Praga salgono le famiglie che arrivano dalla guerra in Ucraina. Se solo non sapessimo cosa sta avvenendo nelle loro città, nella loro terra, forse la loro presenza ci sfuggirebbe. Sono mamme, quasi sempre, con i figli per mano. Sono vestite bene. Hanno borse da palestra e zainetti colorati. Ma non tornano da scuola, e in quelle borse c’è tutto quanto potevano portare via da casa. La Russia di Putin è l’unica colpevole del loro dolore e dei loro lutti.

Percorrono un tratto di strada con noi, con me. In apparenza, hanno vestiti come i nostri, sono bianchi, sono cristiani, molti non hanno bisogno subito di alloggio perché conoscono in Italia parenti e amici. Sono i profughi perfetti anche per chi di solito non ama l’immigrazione altrui: in loro ci specchiamo senza fatica, riusciamo a riflettere la nostra immagine, riusciamo a guardarli senza farci male. Rifletterci negli altri e cercare una sincronia vera hanno la medesima difficoltà. Che sia con il passato, con il presente, con un’altra o con un altro, con noi stessi. Scomodi nella nostra identità, fatichiamo ad accogliere l’identità di un altro, soprattutto quando è diversa. Fatichiamo a rifletterci in chi combatté negli anni della guerra con una idea di futuro che non fosse dittatoriale, troviamo mille distinguo pur di fuggire dal pensiero di una responsabilità su quel passato, che potrà riflettersi in noi, e riflettendosi in noi potrà cambiare il presente. Ricordare la battaglia di Monticello non è dunque connettersi con le armi. Quanto mi sbagliavo nei miei primi pensieri. Ma è dialogare con una idea di responsabilità, di futuro.

I nostri partigiani sono una idea di futuro. Non c’è mai la certezza piena delle loro ultime parole prima di morire, ma da quel passato ci arrivano schegge luminose del loro carattere e dei loro desideri. Grida di libertà. Sussurri di pace. La parola “perdono” pronunciata senza remore. Pensieri per chi la pensa diversamente. È il futuro dopo di loro, è il futuro da costruire. Di libertà e di pace. E di connessione. Di riconoscimento di un bene e di un male, certo, ma anche di una connessione e di un dialogo con chi quel male lo ha scelto o subìto, di chi in quel male ci è nato dentro. È una battaglia, in fondo, che ci vede coinvolti ancora oggi. La dittatura fascista è stata edonismo puro. Cosa c’è di più edonista di una dittatura? Ha accorciato il tempo in un tutto e subito, e per pochi. Ha fatto violenza contro le persone e contro il loro futuro. Oggi viviamo in un ronzio rimasto dal passato. È il ronzio del giorno per giorno. Della sopravvivenza, mia e dei miei figli e dei miei cari, al massimo dei miei simili. È un ronzio che ci parla solo al presente e solo di noi stessi.

Quando incontro i ragazzi delle scuole superiori, chiedo loro come va. Non è una domanda banale, anzi: è una domanda che pochi gli stanno facendo. E le parole che raccolgo come risposta mi aprono di volta in volta gli occhi. Futuro. Piangere. Identità. Spensieratezza. Sono parole giovani. Erano anche le parole dei partigiani, che coincidenza. Tra i loro problemi, non annoverano i problemi che avvolgono la mia generazione e occupano le prime trenta pagine dei quotidiani: la pandemia e la guerra, la guerra e la pandemia. I giovani sono già oltre, stanno guardando al dopo. Noi siamo solo un disturbo della storia, un dilungarsi inutile in attesa della felicità. Noi che cristallizziamo la memoria, che ne facciamo un altarino. Noi che non abbiamo capito. E di fronte alle loro parole, alle parole dei giovani, comprendo di non avere nessuna risposta adeguata ma solo molta fortuna.

Puoi trovare la scatola giusta per una bottiglia di vino. Per un clarinetto. Perfino per una bicicletta. Ma la bellezza degli adolescenti di oggi è che non trovi la scatola giusta per loro. Osservo i ragazzi che partecipano ai miei incontri con uno sguardo preciso: provo a incasellarli. Mi pongo domande su di loro e provo a rispondere. Le stesse domande che mi facevo davanti alle foto dei partigiani. Chi sei tu davanti a me? Visto da fuori, hai un certo aspetto, che vedo e che mi comunica qualcosa. Ma chi sei dentro, nel profondo, chi sei sotto la pelle? Da dove vieni veramente? Qual è la tua identità? Ho capito solo cammin facendo che mi pongo le domande sbagliate. Ecco a cosa serve una nuova generazione: a far diventare vecchi, obsoleti, tutti i dubbi della generazione precedente. A farci accorgere, se lo vogliamo, che il mondo è cambiato e che gli stessi interrogativi non hanno più una risposta.

I soldati nazisti di ottant’anni fa vanno in crisi dopo mesi. Scrivono lettere a casa lamentandosi del rancio e degli spari. Poi, via via che la guerra avanza nelle loro vite, parlano di ferite, della morte degli amici, dello sbaglio che hanno fatto ad arruolarsi. I soldati russi di oggi fanno gli stessi ragionamenti dopo cinque giorni di guerra. Abbandonano i carri armati nei prati.
Perché sanno. Sanno cosa significa crescere, vivere, in un mondo senza la guerra. E questa consapevolezza te la regalano le cose che sai, che hai visto, i viaggi che hai fatto, le persone che hai ascoltato. E non ultimi i libri che hai letto, o che hai sentito leggere. O che hanno letto le persone che frequenti. La cultura rallenta la guerra quanto un lanciarazzi rallenta un carro armato. E poi la cultura ti dà un motivo per vincerla, la guerra. Altrimenti per cosa combatti?

Quando leggo che l’Europa, e con essa l’Italia, ha intenzione di alzare le spese militari, rimango deluso e amareggiato. Non possiamo accettare politici che ragionano così. Alzando le spese militari mentre c’è una guerra, convinti che le guerre del futuro si vinceranno con armi del futuro. Dobbiamo impedirlo. Dobbiamo chiedere forte di non spendere un soldo in più di quello che già spendiamo. E per conto mio è già molto. Troppo. Le guerre del futuro si vincono alzando le spese in scuola, cultura, civiltà. Se spendi in armamenti, prima o poi vorrai usarli. Se spendi in cultura, la guerra nemmeno ci sarà.

Contro questo egoismo violento che sembra spaccare il nostro tempo, ci rimane solo lo spirito dell’arte. Le parole della letteratura. I teatri e i teatranti. La musica. Che permettono di giocare. Di sfogarsi. Di capirsi. Di riflettersi in qualcosa che non sia uno specchio ma che abbia il gusto del futuro. Ai partigiani che hanno combattuto qui non sarebbero bastate l’organizzazione militare, un armamento sufficiente, abnegazione convinta, disprezzo del pericolo. Perché queste caratteristiche le aveva identiche il nemico nazifascista. Anzi, per queste doti era stato perfino più forte. I partigiani avevano un’idea di futuro. Una idea assoluta di far parte già al presente di un futuro. Proprio qui. Proprio dove avevano trovato il loro posto. Con la bella sensazione che cerchiamo ancora noi oggi, quella di sentirci circondati da gente come noi. Da gente a cui importa ancora qualcosa del mondo.

A chi crede nella guerra, rispondiamo così. Chiediamo alla guerra di tirar fuori il suo libro di famiglia: eccolo qua. Proviamo a sfogliarlo. Le pagine sembrano tutte diverse perché vengono da epoche lontane e vicine, e da posti distanti. Ma le sue foto sono tutte uguali. Tutte. Le città distrutte, le macerie per strada, le persone con gli occhi scavati dal dolore. Oggi ricordiamo una battaglia, questa battaglia, per ricordarci che le guerre sono tutte maledettamente uguali.

A me piace Sophie Scholl. E la cito quando posso, e allora la cito anche oggi. Ottant’anni fa a Monaco di Baviera, Sophie Scholl preparava pericolosi e fragili volantini contro il potere nazista, ma scriveva anche lettere. In una di quelle, diceva: «Posso pensare a te in tutta tranquillità. E sono contenta di poterlo fare senza nessuna costrizione, perché lo voglio. È bello quando due sono insieme senza obbligarsi con delle promesse a rincontrarsi di nuovo in momenti stabiliti o a restare sempre uniti. Semplicemente percorrono in due un tratto di strada». Anche noi siamo qui senza nessuna costrizione, perché lo vogliamo. Siamo qui senza obblighi, senza promesse di restare per sempre uniti. Abbiamo deciso di percorrere un tratto di strada. Insieme. Di rifletterci nel passato, anche nel suo male. Di rifletterci nel presente. Di non ostacolare il futuro. Le vicende dei partigiani sono uno specchio, per noi. E le parole di Sophie sono una profezia. Come tutte le parole d’amore.

Matteo Corradini

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