Nella sua casa natale, una targa per ricordare don Borea “Qui ha imparato a perdonare i suoi nemici” foto

“Senza perdono, senza riconciliazione – e lo diciamo in tempo di pandemia, di guerra, di crisi – non ci sarà futuro per la nostra generazione”.

Con queste parole il vescovo di Piacenza Adriano Cevolotto pone l’accento sull’esempio di don Giuseppe Borea, giovane prete partigiano di Obolo di Gropparello, fucilato dai fascisti nel 1945. Soldati che, rimarca il vescovo, quando stavano per sparare, don Borea “ha perdonato”. Nella ricorrenza del 77esimo anniversario della Liberazione di Piacenza, don Borea è stato ricordato dall’Amministrazione comunale con l’affissione di una targa, in segno di memoria e imperitura riconoscenza, sulla parete esterna della sua casa natale, al civico 48 di via Roma.

targa per Don Borea

Il discorso commemorativo del vescovo è stato letto da don Davide Maloberti, direttore del settimanale diocesano “Il Nuovo Giornale”. Oltre al suo intervento, hanno preso la parola il sindaco e presidente della Provincia Patrizia Barbieri, il vice prefetto vicario Attilio Ubaldi e il nipote dell’indimenticato sacerdote, Giuseppe Borea, il quale si è auspicato che “possa partire il processo di beatificazione” per il parroco partigiano. Il primo cittadino ha ricordato Don Borea come “Uno dei tanti figli di Piacenza caduti per la libertà, martire della pace, dell’amore e della carità cristiana”.

La cerimonia si è poi conclusa all’esterno dell’abitazione natale di don Borea, con lo svelamento della targa – con una scritta che recita “Don Borea, martire di libertà e fede” – e la benedizione di don Ezio Molinari, parroco della basilica di San Francesco.

IL DISCORSO INTEGRALE DEL VESCOVO ADRIANO CEVOLOTTO –  “Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case?” L”appello, tratto dalle parole del profeta Aggeo nella Bibbia, scritte almeno 500 anni prima della nascita di Cristo pensando alla città Gerusalemme che stava rinascendo, ben si applica all’esperienza umana di don Giuseppe Borea.  Giovanissimo sacerdote incaricato della parrocchia di Obolo, non è davvero rimasto tranquillo nella sua casa ma si è dato da fare in tutti i modi per la sua gente, per il bene di quel paese. Il suo impegno partiva dall’esperienza di quell’Azione Cattolica che difese a spada tratta di fronte ai gerarchi fascisti, il suo amore per la sua gente e per ogni persona che incontrava, compresi i soldati nemici, nasceva dall’esperienza di Dio. Amici o nemici, sapeva di avere davanti una persona da incontrare, da accogliere, da aiutare. 

Oggi fare memoria del luogo in cui è nato, con i suoi genitori ed anche i suoi fratelli e le sue sorelle, ci aiuta a ricordare che ciascuno di noi è frutto del cammino che ha vissuto, delle relazioni che lo hanno generato; ci spinge oggi a prenderci cura gli uni degli altri, e delle famiglie, vera culla di ogni vita nuova, di ogni vocazione, cioè della singolare avventura di vita di ogni persona.  Qui, in questa casa, fra queste mura, don Borea ha imparato che cosa significa vivere la vita come un disinteressato donarsi per gli altri. Qui sua mamma lo ha stretto tra le braccia da piccolo per poi riabbracciarlo nel febbraio 1945 pochi istanti prima che venisse orribilmente fucilato. Qui don Borea ha imparato a perdonare, come ha perdonato i soldati che gli stavano per sparare.  Senza perdono, senza riconciliazione – e lo diciamo in tempo di pandemia, di guerra, di crisi – non ci sarà futuro per la nostra generazione. Grazie, don Giuseppe Borea!”. 

IL DISCORSO DEL SINDACO BARBIERINel giorno in cui ricorre il 77° anniversario della Liberazione della città di Piacenza, rendiamo omaggio – svelando ufficialmente la targa che ne indica la casa natale – alla memoria di don Giuseppe Borea, che tra queste mura, al civico 48 di via Roma, venne alla luce nella festività del nostro Santo Patrono, il 4 luglio 1910, nell’amore di una famiglia di umili origini, profondamente cattolica. Testimone di fede e carità cristiana sino agli ultimi istanti della sua vita, venne ordinato sacerdote nel 1936 e l’anno seguente, a soli 27 anni, il vescovo Menzani gli affidò la parrocchia di Obolo, frazione di Gropparello, dove si sarebbe speso con entusiasmo e dedizione non solo per portare conforto e porsi come guida spirituale per gli abitanti, ma anche per migliorarne la qualità di vita. La costanza e la determinazione con cui cercò sempre la via del dialogo – senza arretrare di fronte alle minacce di ritorsione delle gerarchie fasciste, che mal tolleravano il suo impegno sociale – gli permisero di portare avanti progetti di fondamentale importanza per la sua gente: dall’attivazione della linea elettrica al percorso educativo in oratorio per i più giovani, cui trasmise i valori e gli insegnamenti dell’Azione Cattolica.

Questo giovane sacerdote di montagna, così presente e attento ai bisogni della sua comunità, di cui condivise anche le difficoltà e gli stenti, ebbe sempre a cuore gli ultimi e i sofferenti. Fu con questa attitudine, che già nell’ottobre del 1942 aveva chiesto di essere arruolato al fronte come cappellano militare, nell’intento di essere vicino ai soldati nelle trincee e sui campi di battaglia, ovunque vi fosse l’urgenza di assistere e ridare speranza a chi andava incontro alla morte. Il permesso, dalla Diocesi, non sarebbe mai arrivato, ma quando – dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 – la guerra giunse in modo drammatico e devastante anche tra le nostre colline, don Giuseppe non esitò: sorretto dal suo coraggio e dalla sua forza gentile, nel giugno del 1944 diventò cappellano della 38° Brigata della Divisione Val d’Arda, comandata da Giuseppe Prati.

In quei lunghi, durissimi mesi, don Borea continuò ad essere – ancor più di prima – un punto di riferimento non solo per i suoi parrocchiani, ma per tutti coloro che avrebbero incrociato il suo cammino, bussando alla porta, sempre aperta, della sua canonica. Egli fu al fianco di partigiani, militari, prigionieri, condannati all’esecuzione, senza mai fare distinzioni di parte: ciò che contava era l’umanità delle persone che avevano bisogno di aiuto, di sostegno o, semplicemente, di una parola di fede, di un gesto d’amore, di quella pietà che nel conflitto era venuta a mancare.

Furono le sue mani a chiudere gli occhi alle vittime dell’eccidio del Passo dei Guselli, le sue mani strette in quelle dei genitori, figli e fratelli cui doveva portare la tragica notizia di una morte, le sue mani a ricomporre e restituire dignità ai poveri resti di tanti partigiani uccisi, celebrandone le esequie. Come Nuccia Casula, giovane studentessa originaria di Varese, uccisa sul nostro territorio durante un rastrellamento, di cui don Giuseppe raccolse la salma rimasta per qualche giorno sotto una fitta coltre di neve, per darle sepoltura nel piccolo cimitero di Obolo.

Ma quella figura esile e altruista, capace di non tirarsi mai indietro laddove poteva farsi strumento di pace, faceva paura più delle armi. Quando lo arrestarono, nel gennaio del 1945, dovette subire accuse infamanti e ingiuste, fu sottoposto a un processo iniquo in cui non vennero ammessi testimoni in sua difesa, nonostante fossero numerose le persone che avrebbero voluto spendersi per proclamarne l’innocenza. Solo dopo la Liberazione, i responsabili di quelle calunnie e della sua uccisione sarebbero stati condannati, la validità del processo inficiata, le gravissime falsità nei suoi confronti smentite completamente.

Il suo sacrificio si iscrive nel solco del contributo determinante che il mondo cattolico diede alla Resistenza, annoverando oltre 2000 Caduti – di cui ben 1177 iscritti all’Azione Cattolica e alla Gioventù italiana del Movimento – e più di 2500 feriti gravi. Furono 730 i sacerdoti imprigionati o vittima di torture per non aver accettato la connivenza con ideologie violente e di sopraffazione, di cui 315 assassinati o mai più tornati dai campi di concentramento in cui vennero deportati. La fede e una solidarietà senza confini restarono sempre la loro bussola, ad ogni passo. Così fu per don Giuseppe, quando il 9 febbraio del 1945, di fronte al muro del cimitero urbano, ebbe davanti a sé il plotone d’esecuzione. Rifiutò la sedia, non volle essere bendato. “Muoio innocente – disse – perdono di cuore coloro che mi hanno fatto del male e anche voi che state per sparare”. La sua coerenza, la limpidezza d’animo, il suo straordinario esempio restano ancora oggi un faro luminoso di altissima levatura morale e civile.

Apponendo la targa che oggi sveliamo ufficialmente insieme, alla presenza delle autorità politiche, civili, militari e religiose, nonché del nipote Giuseppe – che desidero ringraziare per la sua costante e infaticabile opera di tutela della memoria – l’Amministrazione comunale rende il tributo commosso e partecipe di Piacenza a uno dei suoi tanti figli caduti per la libertà, martire nel nome della pace, dell’amore e della carità cristiana. Perché questa casa possa diventare – come il sentiero intitolato a don Borea che si snoda dalla parrocchia di Obolo al Preventorio di Bramaiano, sede dell’ospedale partigiano durante la Resistenza – una ulteriore tappa di consapevolezza e gratitudine nel ripercorrere il cammino della nostra storia.

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